«Il 2010 è un anno decisivo. L’Italia e l’Europa intera si trovano davanti a un bivio e devono necessariamente scegliere se imboccare la strada della ripartenza e della crescita o quella del declino inesorabile» ammette Maurizio Sacconi a ilsussidiario.net. Un momento storico cruciale, secondo il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, che richiama la politica alle proprie responsabilità nel governare i cambiamenti e nell’elaborare una chiara visione di lungo periodo.



Ministro, quali passi permetteranno all’Europa di imboccare la strada della crescita?

L’Europa è minacciata dal pericolo di quello che è stato definito “rattrappimento baltico”, nella recente analisi di De Michelis. Uno sviluppo contenuto, concentrato attorno alla portualità del Baltico che potrebbe intercettare flussi commerciali tendenzialmente destinati a muoversi sopra la nostra testa. La ripartenza passa invece da una prospettiva diversa, quella di solide relazioni paneuropee, dall’integrazione dell’Europa continentale con la Russia e dall’assunzione di una forte dimensione mediterranea.

Quale sarebbe il ruolo dell’Italia in questa seconda ipotesi?



Il Mediterraneo può diventare la quarta economia mondiale emergente dopo India, Cina e Brasile. L’Europa, perciò, può favorire questa prospettiva preparandosi a dividerne i dividendi.
Nell’attesa di decisioni condivise, l’Italia fa bene a muoversi autonomamente e a tessere relazioni politiche e commerciali. Il nostro Paese deve proporsi come baricentro di una prospettiva di sviluppo e non più come periferia della vecchia Europa. Il Mezzogiorno può diventare la piattaforma avanzata dell’Unione, l’Adriatico il ponte tra i flussi che dal Sud si muovono verso l’Europa, mentre il Nordest può confermare la propria importanza a livello logistico e produttivo.
Certo, affrontiamo queste sfide con i vincoli del nostro debito, un circuito mediatico-giudiziario che si è rimesso in moto e un diffuso nichilismo, portato avanti da borghesie egoiste che tendono a lucrare dalle difficoltà delle persone.

Lei pochi giorni fa ha invitato la maggioranza a una maggiore “leadership collettiva”. Si è forse aperto un problema di leadership dell’esecutivo per poter affrontare sfide così impegnative?



Ho fatto appello a una leadership collettiva perché oggi una leadership chiara c’è ed è quella di Silvio Berlusconi, che ha avuto il merito di ricostruire una politica popolare dopo che questa era stata annichilita non solo dai propri errori, ma da un vero e proprio colpo di stato giudiziario. È giunto però il momento che chi collabora condivida fatiche e responsabilità, rafforzando una leadership popolare e non populista, delegata dal popolo.

I giornali parlano però di una certa insoddisfazione del premier verso il proprio partito e della tentazione di riazzerare tutto dopo le Regionali. Sembra infatti che ci sia più di un esponente del Pdl che questa leadership voglia ereditarla più che condividerla…

Da un lato c’è sicuramente un sovraccarico di responsabilità sulla figura del premier, da questa constatazione è nato il mio appello a una maggiore responsabilità di tutti. Sul tema dell’eredità della leadership dico solo che c’è un’antica regola della politica secondo cui ogniqualvolta si evoca un’alternativa o una successione si indebolisce la leadership in atto, tra l’altro ancora assolutamente vitale e dinamica.

Il Pdl è un partito giovane in passato definito da qualche suo autorevole esponente una “monarchia” o addirittura una “caserma”. A che punto è il suo processo di democratizzazione interna e di radicamento?

Le straordinarie condizioni nelle quali è intervenuta l’iniziativa politica di Berlusconi hanno determinato certamente lo svilupparsi di un fenomeno leaderistico (in parte paragonabile a quello di De Gaulle per il riscatto della Francia), che gli altri movimenti hanno poi imitato. Questa leadership ha avuto fin da subito al suo interno delle regole interne che si sono nel tempo affinate. Oggi constatiamo che quando si sono riaffermati eccessivi meccanismi di tipo tradizionale non sempre si è giunti a risultati positivi, basti pensare alla scelta delle candidature.
Per quanto riguarda la democrazia interna, il Pdl deve essere un movimento politico maturo capace di votare sulle grandi opzioni, prima che sugli uomini.

Cosa intende?

Uno dei compiti principali della leadership popolare a cui facevo riferimento prima è quello di sollecitare i valori già presenti nella nostra comunità nonostante i continui tentativi di annichilimento: l’accoglienza, il rispetto e la protezione della vita dal concepimento fino alla sua morte naturale, veri presupposti del vitalismo sociale. Questi sono i valori fondamentali di quella che chiamo “laicità adulta”, largamente condivisa all’interno del nostro partito. Le divergenze sono rispettabili, ma è anche bene verificarne il loro peso.

Proprio a questo proposito, è appena passato un anno dalla morte di Eluana Englaro. A che punto siamo a livello legislativo?

Occorre intervenire per colmare un vuoto normativo nel quale la magistratura ha ritenuto di intervenire regolando ciò che nessuna legge e nessun principio costituzionale avrebbero consentito. Possiamo fortunatamente constatare che durante quest’anno non un cittadino italiano parente prossimo di una persona in stato vegetativo persistente ha rivolto a un magistrato la stessa richiesta. La rinuncia all’intervento significherebbe però accettare uno spazio vuoto nel quale, come ieri anche domani, potrebbe intervenire un magistrato.

A livello di tempistiche quando si potrà, secondo lei, colmare questo vuoto legislativo?

 

 
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Ci sono tutte le condizioni, anche se sarà il Parlamento nella sua sovranità a decidere, per poter arrivare alla terza lettura entro la prossima estate. In merito a queste questioni vorrei però rivolgere un appello agli elettori dell’Udc affinchè penalizzino alcune  scelte opportunistiche del proprio partito come l’appoggio a Mercedes Bresso in Piemonte. Il suo percorso politico è infatti la negazione più totale di quei valori ai quali dice di ispirarsi l’Udc.

Passando al tema più ampio delle riforme. Archiviate le Regionali il Paese si troverà nella condizione inusuale di tre anni senza elezioni. È possibile sperare che le pulsioni elettoralistiche rientrino e si passi dalla gestione delle emergenze ai cambiamenti strutturali?

Certamente sì, le priorità che ho ultimamente indicato sono: fisco, credito, giustizia, educazione e formazione e più in generale nuove regole della responsabilità e della sussidiarietà. Su questi temi mi auguro che Bersani e il Pd abbandonino la propaganda del popolo viola e smettano di inseguire piccole borghesie frustrate e grandi borghesie opportunistiche nella logica dello sfascio del Paese. 

Qual è il suo bilancio in materia di welfare del lavoro fatto fin qui e quali sono gli obiettivi da qui alla fine della legislatura ?

Abbiamo avvertito il bisogno di indicare i valori e la visione di un nuovo modello sociale, in termini quanto più condivisi attraverso un Libro verde e una consultazione pubblica, le cui indicazioni si sono tradotte in un Libro bianco. Un’operazione che è andata in parallelo a numerosi interventi sul nostro modello sociale. L’ultimissima in questo senso è l’accordo tra Stato, regioni e parti sociali sulle nuove linee guida in materia di formazione. Lo stesso commissariamento della sanità meridionale è stato avviato in coerenza con quel Libro bianco nel quale si dice che i servizi socio sanitari devono integrarsi con quelli assistenziali. Il Libro bianco insomma continua a dare la visione alle azioni che si svolgono.

Riguardo alle pensioni, è possibile innalzare l’età pensionabile? Vittorio Feltri ha invitato il governo a innalzarla all’età di 65 anni. Cosa ne pensa?

L’età pensionabile è stata recentemente innalzata da una decisione del Parlamento che ha approvato la proposta del governo secondo la quale a partire dal 2015 l’età della pensione si collega strettamente alle aspettative di vita e si alza dove questa si alzi. Un intervento che si collega all’entrata in vigore di quei coefficienti di trasformazione già disegnati dalla Legge Biagi che però erano sempre stati rinviati. Coefficienti di trasformazione e allungamento dell’età di pensione collegati entrambi alla aspettativa di vita tendono a neutralizzare l’effetto sul regime previdenziale dell’invecchiamento. Se si vuole invece alzare l’età delle donne io non sono d’accordo.

Per quale motivo?

Le donne sono ancora fortemente escluse dal mercato del lavoro e non possono avere percorsi continui che consentano loro di accumulare l’anzianità contributiva. In futuro questo problema andrà affrontato, ma sempre condizionato alla crescita dei tassi di occupazione femminili e in accordo agli obiettivi del processo di Lisbona.

(Carlo Melato)