Berlusconi vuole a breve misure anticorruzione per «rispondere» in modo efficace alle recenti inchieste che si sono riversate sul mondo politico, in particolare su esponenti della maggioranza di governo. Ed è una cosa che alla vigilia delle elezioni regionali, preoccupa non poco il premier. Ieri si è aggiunto l’allarme di Pisanu, a capo dell’Antimafia, secondo il quale l’Italia può restare schiacciata da una nuova ondata di corruzione dilagante, che minaccia di indebolirne il tessuto istituzionale e civile. Se a questo si aggiunge l’ultimo scontro tra procure, quella di Firenze e quella di Roma sul caso del pm Achille Toro, e gli ultimi ordini di custodia cautelare a carico di Silvio Scaglia, del senatore Pdl Di Girolamo e di altri nomi eccellenti nell’ambito di una maxi inchiesta per riciclaggio, gli elementi per un quadro a tinte fosche ci sono tutti. Ne ha parlato con ilsussidiario.net Nicolò Zanon, professore di diritto costituzionale.
Si parla ormai apertamente di una Tangentopoli 2, quasi a scongiurarne il ritorno. È un paragone azzeccato?
Le inchieste di Tangentopoli scoperchiarono un sistema generalizzato che atteneva all’illecito finanziamento dei partiti e della politica oltre che all’arricchimento personale. Oggi, ammesso che esista un sistema complesso e non singoli casi, questo non è più rivolto al finanziamento dei partiti ma alla gestione di privati interessi. Ma io andrei comunque cauto.
Lei dunque è prudente. Perché?
Intanto occorre vedere quante di queste accuse reggeranno alla prova del giudizio. Il primo problema che mi viene da segnalare è che abbiamo a che fare con processi che si fanno sui giornali e sulla base di pubblicazioni di intercettazioni alcune delle quali prive di qualunque rilievo penale. Tutti inorridiamo nel sapere che due imprenditori hanno riso di una tragedia come quella dell’Aquila. È una cosa riprovevole dal punto di vista morale, ma non costituisce un reato. Quante volte al telefono capita di dire sciocchezze? Siamo sicuri che il pubblico ludibrio sui giornali ne sia la giusta moneta di scambio?
Eppure le vicende che coinvolgono la «cricca» di Balducci, De Santis, Anemone e Della Giovanpaola, oltre a numerosi loro contatti, anche molto importanti, sembrano serie.
Non voglio affatto minimizzare. Si intravedono alcuni intrecci tra Pubblica amministrazione e attività imprenditoriale che proprio non ci dovrebbero essere. Anche di magistrati della Corte dei Conti o della Procura di Roma, tutte cose indubbiamente molto gravi.
Veniamo alle intercettazioni. C’è un ddl depositato da giugno scorso, pare che non se ne parli fino a dopo le regionali.
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Il problema è duplice. Un conto sono le intercettazioni diffuse in violazione del segreto istruttorio. Non sembra questo il caso perché quelle che leggiamo in questi giorni sono state rese pubbliche una volta eseguiti gli arresti. Ma in molti altri casi è successo che venissero pubblicate nel corso dell’indagine, quando c’era ancora il segreto investigativo. Non biasimo i giornalisti, che fanno il loro mestiere.
Allora dove sta il punto?
Mi sorprende il fatto che della violazione di un segreto istruttorio connessa alla pubblicazione illecita di un’intercettazione non sia mai stato incriminato nessuno. Sarà un’osservazione banale, ma occorre rifletterci. Coloro che possono averle fornite ai giornalisti si contano sulle dita di una mano: sono quelli che le hanno eseguite e il pm che le ha disposte. Sulla pubblicazione, dunque, basterebbe applicare seriamente le norme che ci sono.
E della riforma delle intercettazioni che ha in mente di fare la maggioranza, cosa pensa?
Penso che si debba consentirne l’utilizzo perché sono uno strumento investigativo importante, spesso irrinunciabile. Ma non le intercettazioni «a strascico», in cui cioè si ascolta tutto perché qualcosa che serve si trova sempre. La soluzione sta probabilmente in un limite all’utilizzo in casi particolari delle forme vigenti.
L’attuale progetto di legge dispone che l’intercettazione è utilizzabile quando c’è già un forte indizio di colpevolezza.
Il che vorrebbe dire che dovrei aver utilizzato gli strumenti tradizionali di indagine e l’intercettazione a conferma. Potrebbe essere una soluzione. Occorre però tener ben saldo il principio. O si ritiene che debba prevalere il diritto alla riservatezza nelle comunicazioni, e che questo diritto tutelato nella Costituzione prevalga sulle esigenze di ricerca e di persecuzione dei reati, o si parte dall’assunto contrario. Probabilmente siamo partiti – nella pratica – dall’assunto contrario. E un certo diritto alla privacy è stato probabilmente sacrificato.
Deve prevalere la sicurezza pubblica dei cittadini o il diritto individuale?
Trattandosi di beni che hanno entrambi un enorme valore, nessuno dei due deve essere cancellato dalla soluzione finale. Ma il bilanciamento è una cosa difficile e va fatto con molta attenzione. Probabilmente un certo rispetto in più della privacy non farebbe male. Se la pubblicazione vìola il segreto, va perseguita. Se non lo fa, è affidato alla deontologia del giornalista capire che mettere in piazza vicende del tutto private e prive di rilievo penale può distruggere le persone e le famiglie.
Berlusconi ha parlato di norme anticorruzione e di depurazione delle liste. Un ddl è atteso venerdì in Consiglio dei ministri.
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È il tema dei rapporti tra candidature politiche e privata moralità. Il Pdl lo scopre ora, ma dovrebbe recitare il mea culpa per non averci pensato prima. Col risultato di trovarsi ora ad inseguire la situazione e ad accorgersi che non si può delegare alle procure la composizione delle liste.
C’è questo rischio?
Naturalmente sì, ma c’è in quanto la politica non ha fatto in modo autorevole e tempestivo il suo mestiere. Ci sono due soluzioni possibili. Una è quella di affidarsi alla deontologia dei partiti. Il fatto è che l’elettorato passivo è un diritto fondamentale; ma fino a che punto si può «comprimere» l’elettorato passivo in mancanza di una sentenza che accerta la colpevolezza del candidato? È difficile dirlo. Nella scorsa legislatura c’era un progetto per estendere alle elezioni politiche le cause di ineleggibilità o di non candidabilità per essersi resi responsabili con sentenza almeno di primo grado di particolari reati gravi. Poi non se ne fece nulla, ma è un’idea che andrebbe rispolverata.
Una soluzione dunque sta nei codici di comportamento delle singole forze politiche. E l’altra?
Non resta che lo strumento imperativo della legge. La politica ci pensi bene. Usare solo la sanzione penale è uno strumento ex post che può servire a poco, perché fa la faccia feroce, ma non tocca le cause del fenomeno.
Su quello che sta accadendo non c’è anche l’ombra di un certo giustizialismo?
Ma quello c’è sempre stato. Purtroppo non possiamo prescinderne perché, nostro malgrado, è ormai un elemento fisso della scena politica. Proprio per questo sono richieste scelte realmente lungimiranti.
A Berlusconi che sembra intenzionato a mettere al primo posto la riforma della giustizia, l’altro ieri ha replicato a distanza il presidente Fini, che vorrebbe invece cominciare dalla riforma delle Camere. Che ne pensa?
Da un lato Fini ha ragione perché la riduzione del numero dei parlamentari attesterebbe la buona volontà di autoriforma della classe politica. Dall’altro è un fatto che si sta lavorando a una riforma della giustizia, ma il timing è tale che invece di essere una riforma di civiltà e una risposta alle questioni aperte, gli eventi congiurano a farla sembrare una ritorsione politica. Ci vorrebbe un scatto d’orgoglio per riformare tutte e due, giustizia e bicameralismo. Ma nella melassa in cui siamo il vero disastro sarebbe di non fare né l’una né l’altra cosa, e di continuare a parlare eternamente di riforme.