Millenovecentonovantasei
Per cominciare, un passo indietro lungo quattordici anni.
All’indomani delle elezioni vinte da Romano Prodi e dall’Ulivo, Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema, in un convegno indetto da Liberal, convengono solennemente su un punto essenziale. Se i vincitori e i vinti di quella sfida elettorale non riusciranno, nei cinque anni di legislatura, a riconoscersi reciprocamente piena legittimità nell’unico modo possibile, e cioè dando vita insieme agli istituti e alle regole della Seconda Repubblica, avranno fallito nel tentativo di costituirsi in nuova classe dirigente. E dovranno andare a casa. Ma a pagare il prezzo più alto di questo fallimento sarà il Paese. Sappiamo com’è andata. E non è particolarmente interessante ricostruire qui il come e il perché, provarsi a stabilire se quella Bicamerale fosse o no la strada migliore o chi porti le responsabilità maggiori per il fallimento della medesima. Quel che conta è che non se ne è fatto nulla, quelle ambizioni si sono perse per strada, ma a casa non c’è andato (quasi) nessuno.
Duemiladieci
Storie dell’altroieri? Sicuramente sì. Ma io continuo a pensare che gli effetti velenosi, anzi, distruttivi di quel disastro abbiano segnato pesantemente tutto il periodo successivo. E che oggi si manifestino in forme drammatiche. Legittimazione reciproca per mettere finalmente in cantiere qualche riforma di sistema? Ma neanche per idea. Guardiamoci intorno, un giorno dopo la conferenza stampa di Berlusconi, un giorno prima della manifestazione romana del centrosinistra. Stando alla rappresentazione che del cosiddetto “caos delle liste” danno le diverse leadership politiche, o presunte tali, ma anche l’informazione, mezza Italia è convinta che chi governa intende cambiare in corsa, a proprio vantaggio, le regole del gioco, magari facendo prigioniero, all’uopo, il capo dello Stato. L’altra mezza metterebbe una mano sul fuoco sul fatto che le opposizioni (non solo quelle politiche, nel mazzo bisogna mettere, si capisce, un bel pezzo di magistratura) cerchino di vincere la partita a tavolino, impedendole addirittura di andare alle urne, a costo di scaricare un presidente della Repubblica che pure proviene dalle loro file. Per ciascuna delle parti in campo, l’altra è golpista.
Tempi de guera, più balle che tèra
Si tratta, in tutta evidenza, di corbellerie. Di corbellerie che dovrebbero infiammare gli animi e fare proseliti, e magari ci riusciranno. Ma pur sempre di corbellerie. Un piccolo esperimento per provarlo. Nei fatti è capitato, per la storia delle liste, quel che doveva capitare per come si erano messe le cose. E allora chiedetevi come sarebbero andate le cose se tutte le parti in causa, invece di straparlare, di impiccarsi ai ricorsi, di esercitarsi in improbabili decreti legge, di giocare al più pericoloso dei wargame, avessero provato a ragionare scommettendo, in primo luogo, sull’esito più che probabile, anzi, quasi scontato della contesa: Polverini e Formigoni riammessi, lista del Pdl a Roma e provincia no.
La risposta è semplice. Non si sarebbe arrivati a una stretta politico-istituzionale che è certo per molti aspetti farsesca, ma non per questo meno pericolosa. Non si sarebbe strattonato da una parte e dall’altra ai limiti dell’indecenza, e anche oltre, Giorgio Napolitano. Nel migliore dei casi, si sarebbe trovata una qualche soluzione politica, ovviamente condivisa, per la questione del Lazio. Nel peggiore, si sarebbe preso atto che i maggiorenti del Pdl romano, per imperizia o per altro, avevano combinato un guaio cui era impossibile porre rimedio: le opposizioni ne avrebbero tratto un ovvio vantaggio, anche propagandistico, il centrodestra avrebbe cercato di limitare il danno convogliando tutti gli sforzi, in campagna elettorale, sulla candidata Polverini e sul suo listino, e rinviando al dopo elezioni il chiarimento o, a loro scelta, la resa dei conti interna. Tutte cose che in politica, in specie in una politica così scombiccherata come la nostra, possono benissimo capitare senza che di mezzo ci vadano le istituzioni.
In piazza. Ma perché?
Invece no. L’esito è (Consiglio di Stato permettendo) quello previsto. Ma il gioco di guerra continua e, con il decreto, si incattivisce. Il centrosinistra scende in piazza già domani a Roma. Contro chi manifesta, e per che cosa? Difficilissimo dirlo, dopo che il varo del contestatissimo “decreto interpretativo” si è oltretutto rivelato del tutto inutile, perché il Tar lombardo ha dato il suo via libera a Formigoni, come avrebbe detto Totò, “a prescindere”, e il Tar del Lazio ha detto no al Pdl ricordando al colto e all’inclita che il decreto è inapplicabile in quella regione, per il semplice motivo che sulle leggi elettorali decide lei. Qualunque cosa intenda dire, dal palco, Antonio Di Pietro, buona parte della piazza sarà ovviamente antiberlusconiana ad oltranza, ma tenderà a prendersela non poco con Napolitano. Bersani, che non vuole smarcarsi dal Quirinale né tantomeno finire prigioniero di Di Pietro, probabilmente si chiede perché mai ha deciso di convocare d’urgenza la piazza. Non potendo convocarla, cerca di alzare paletti e mettere argini, assicurando che, con questa manifestazione, il Pd intende fare tutt’altro: in poche parole, passare “dalla protesta alla proposta”. Auguri sinceri, ma (basta farsi un giretto sulla rete) l’occasione non pare onestamente la più propizia. Ci manca solo una contestazione di piazza al capo dello Stato.
Il 21, invece, in piazza ci andrà Berlusconi con il centrodestra (compresa quella parte, non piccola, del centrodestra che è molto perplessa per la china presa dagli eventi. La manifestazione sarà sicuramente oceanica. Berlusconi dovrebbe prendersela forse un po’ con se stesso, sicuramente con i suoi. Se la prenderà invece, sulla falsariga di quel che va dicendo in queste ore, e magari andando ulteriormente oltre, con bolscevichi, radicali, toghe rosse e via dicendo. Può darsi, come recita un giorno sì e l’altro pure la stampa amica, che la cosa gli valga a recuperare entusiasmi o quanto meno consensi. Mi consento di dubitarne. La promessa del 1996 è stata clamorosamente disattesa, di classi dirigenti non si intravede nemmeno l’ombra. Se è lecito parafrasare il motto aureo della medaglia dell’amore di tanti anni fa: oggi peggio di ieri, meglio di domani.