Ieri sera Silvio Berlusconi ha incontrato Giorgio Napolitano per sottoporgli i termini del decreto legge con il quale il Consiglio dei ministri vorrebbe risolvere il problema delle liste escluse dalla competizione elettorale. In realtà la lista di Renata Polverini è stata riammessa in serata dalla Corte d’Appello; resta fuori ora solo il listino di Formigoni, insieme alla lista del Pdl in provincia di Roma. Non mancano però le polemiche.



Due le ipotesi da mettere in decreto: o un rinvio del termine di presentazione delle liste, oppure un rinvio delle elezioni. Sembra però che la proposta di Berlusconi non abbia convinto il capo dello Stato. Ilsussidiario.net ha chiesto ad Aristide Police, professore ordinario di diritto amministrativo, una valutazione delle ipotesi sul tappeto: ricorso al Tar, legge e decreto legge. «La sostanza dei valori costituzionali in gioco – afferma Police – è quella di consentire il libero concorso dei cittadini alla determinazione della politica nazionale. Sono valori che non possono essere sottovalutati in ragione di una mera polemica politica».



Per risolvere il problema delle liste escluse dalle elezioni si sta tentando una «soluzione politica», senza rinunciare alla via del ricorso al Tar. Che ne pensa?

Sono dell’idea che una strada sia alternativa all’altra. La soluzione politica, infatti, mi pare presupporre la convinzione che la via dei mezzi giurisdizionali non sia percorribile, per ragioni di tipo processuale o anche per ragioni di tipo sostanziale: presuppone, cioè, che non ci siano margini giuridici tali da consentire l’accoglimento dei ricorsi.

Si parla di un decreto legge. Come si giustificherebbe il provvedimento?



 

La spiegazione più semplice fa riferimento alla nostra esperienza istituzionale recente: il decreto legge del 29 marzo 1995, n. 90, recante «Nuove norme in materia di termini per la presentazione delle liste nelle elezioni regionali, provinciali e comunali della primavera del 1995».

E perché si rese necessario quel decreto, professore?

Perché i Radicali ebbero straordinarie difficoltà nella raccolta delle firme. E quindi il governo tecnico presieduto da Lamberto Dini decise di varare questo decreto legge che, limitatamente al turno delle elezioni regionali, provinciali e comunali fissato per domenica 26 aprile 1995, spostava in avanti il termine per la presentazione delle liste e delle candidature. Consentendo alle forze politiche di avvalersi di un congruo periodo di tempo ai fini della raccolta delle sottoscrizioni delle liste e delle candidature. E tutto questo per «garantire un regolare svolgimento delle consultazioni». La stessa cosa evidentemente potrebbe essere disposta oggi, con un analogo provvedimento d’urgenza.

Ieri però chi era favorevole ad una legge, si è opposto fermamente all’ipotesi di un decreto.

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Rispetto a queste voci di forte dissenso rispetto all’uso del decreto legge, mi limito a rilevare che questa costituisce una prassi che si è già utilizzata nella tradizione del nostro paese, e per di più in una fase che, quanto a tasso di conflittualità politica, non aveva nulla a che vedere con quella attuale.

 

E questo sarebbe un punto a favore? Il decreto allora fu varato da un governo tecnico.

 

Ritengo che l’alto grado di scontro politico attuale non cambi molto la sostanza delle cose. Che implica un bilanciamento di valori costituzionali, anche nell’ipotesi – ma su questo non ho elementi – di eventuali imprecisioni nella presentazione delle liste da parte di alcune parti politiche. Ma la sostanza dei valori costituzionali in gioco è quella di consentire il libero concorso dei cittadini alla determinazione della politica nazionale, e in questo caso della politica regionale, che nel contesto costituzionale odierno è molto rilevante.

 

Nella sua valutazione non pesano eventuali responsabilità in imprecisioni e irregolarità da parte di alcuni partiti?

 

Su eventuali irregolarità la magistratura amministrativa potrà esprimersi, ma è evidente che questi soggetti politici manifestano l’intenzione di voler «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», come dice l’articolo 49 della Costituzione. È un valore costituzionale; non credo che questo valore, così significativo per la collettiva gestione democratica delle istituzioni regionali, possa essere sottovalutato in ragione di una mera polemica politica.

 

Un eventuale decreto potrebbe contenere o un rinvio del termine di presentazione delle liste, oppure un rinvio delle elezioni. Pare però che sul primo Napolitano non sia d’accordo.

 

Il rinvio delle elezioni è una possibilità, ma comporta un prolungamento notevole della campagna elettorale. Ne possono derivare conseguenze pesanti per la collettività, in termini di costi. Costi che evidentemente sono sopportati dal finanziamento lecito dei partiti; ma anche costi derivanti dal blocco delle attività politico-amministrative degli enti regionali e locali, rispetto ai quali le elezioni costituiscono un momento fondamentale per il riavvio delle attività politiche. Pensiamo alla sanità, per esempio.

 

Invece di un decreto, l’ipotesi di una legge è percorribile?

 

Dal punto di vista astratto, sì. Dal punto di vista pratico, però, il problema è quello dei tempi. Invece un decreto legge può essere promulgato e pubblicato in un tempo molto breve, ferma restando la sua compatibilità costituzionale, che il presidente della Repubblica evidentemente dovrà valutare all’atto della promulgazione.

 

Ma ci sarebbe una diversità di sostanza tra una legge e un decreto legge in materia?

 

 

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No, perché in questo caso sia la legge sia il decreto legge avrebbero come contenuto o una proroga per la presentazione delle liste, o lo slittamento del voto. Ora delle due soluzioni, che le si proponga a mezzo di legge ordinaria o di decreto legge, non credo che cambi granché quanto al contenuto della previsione legislativa. Ma allora, se c’è consenso politico sul consentire un reale contesto elettorale con la presenza di tutte le forze politiche, o comunque di quelle più significative, è chiaro che il percorso parlamentare non porterebbe nessun arricchimento dal punto di vista del contenuto del testo, perché la misura dispositiva che si ipotizza è quella che abbiamo detto.

 

Professore, torniamo per un attimo all’ipotesi del Tar.

 

Il Tar, nonostante le difficoltà che si troverebbe a dover sopportare nell’affrontare una decisione di tale portata politica, sicuramente si limiterebbe ad applicare la legge, interpretandola. Quella del Tar mi pare una strada sicuramente percorribile, però non so se una questione che ha assunto una valenza politica così significativa, possa e debba essere affidata a un giudice amministrativo.

 

E dopo il Tar c’è solo il Consiglio di stato.

 

Il Consiglio di Stato darebbe una decisione con tutti i crismi dell’imparzialità e dell’indipendenza dell’organo giurisdizionale, ma è un giudice d’appello sulla decisione del Tar. Proprio per questo la sentenza del Tar sarebbe sprovvista della definitività necessaria. E altre parti, ove dovessero risultare vittoriosi i ricorrenti, potrebbero impugnare davanti al Consiglio di stato la sentenza del Tar. Continuerebbe l’escalation giudiziaria, lasciando il corpo elettorale in attesa dell’esito. Ma non è tutto.

 

Si spieghi.

 

Anche con i brevissimi tempi previsti, un inevitabile ricorso al Consiglio di stato – quale che fosse l’esito del ricorso al Tar – segnerebbe inevitabilmente la campagna elettorale. Essa sarebbe tutta giocata, per un periodo non indifferente, su diatribe di tipo legale, anziché su contenuti legati al contesto politico. Sarebbe un’erosione del tempo che la legge stessa destina allo svolgimento della campagna elettorale.

 

(Federico Ferraù)