La decisione del Tar del Lazio di bocciare il ricorso del Pdl apre una nuova settimana di tensione politica legata alle ultime fasi del cosiddetto “caos liste”. Scampato il pericolo per i listini dei candidati Formigoni e Polverini, che potranno presentarsi alle elezioni regionali, il destino della lista Pdl di Roma e Provincia non è ancora chiaro. L’analisi politica di quello che sembra essere il momento più difficile del partito di Berlusconi, dalla sua fondazione a oggi, è però pienamente attuale.



Se da un lato, alla vigilia di questo incredibile caso, circolavano diverse voci sui malumori del Presidente del Consiglio, tentato dall’ipotesi di “riazzerare il partito”, dall’altro, nei giorni più difficili e nei quali era importante serrare le fila, Gianfranco Fini non ha esitato a dichiarare: «Il Pdl, così com’è, non mi piace».



Questi segnali di malessere – dice Marcello Veneziani a IlSussidiario.net -, non sono però «il frutto di una “fusione fallita” tra Forza Italia e Alleanza Nazionale, né lo scontro tra due nomenclature, ma qualcosa di più profondo».

Come esce il Pdl da questa vicenda?

Innanzitutto distinguerei tra il caso laziale e quello lombardo. Il “pasticcio” di Roma è dovuto a uno scollamento preoccupante del partito locale. Là dove la leadership spetterebbe agli ex An mancano dei soggetti in grado di organizzare il partito e le conseguenze sono evidenti. Diversa la situazione in Lombardia dove si avverte la presenza reticolare di un partito compiuto nel quale la presenza di Formigoni è un collante notevole.  Qui il problema non è stato il dilettantismo o la disorganizzazione, ma la particolare attenzione che in questa occasione è stata riservata alla procedura di consegna delle liste. Difficile credere, come si è letto, a un presunto e improvviso crollo dell’attenzione da parte dei partiti, dopo anni di straordinaria precisione.

In che senso, secondo lei, le divisioni e i problemi del Pdl vanno al di là delle differenze tra Fi e An?



Di fatto la tensione tra i due partiti che hanno portato alla nascita del Pdl non è politica e sorpassa gli antichi steccati. Non si spiegherebbe infatti come mai c’è una componente della vecchia Alleanza Nazionale che oggi è molto più vicina a Berlusconi che a Fini. Il fatto è che non ci sono due visioni che si scontrano e che faticano a integrarsi. An, infatti, era già stata privata di una linea politica fin dagli ultimi tempi in cui la guidava Fini, mentre Forza Italia non ha un suo profilo politico culturale e si identifica pressoché totalmente nella monarchia berlusconiana. Le similitudini con il Pd non sono poi così poche.

Cosa intende?

I due grandi partiti che in questi anni si stanno contrapponendo sono due contenitori vuoti che vivono tensioni interne fortissime. Nel caso del Pdl questi problemi sono attutiti dalle vittorie e dal carisma del suo leader, ma entrambi devono guardarsi da partner molto motivati: Lega e Idv, che hanno una forza territoriale, o di piazza, notevoli.

Quali sarebbero allora i motivi di queste vittorie?

Il Pdl è costituito da due elementi fondamentali: un popolo di centrodestra sempre più omogeneo, in cui le differenze tra elettori di destra, liberali o cattolici sono sempre più sfumate, e un leader riconosciuto. Il problema sta nel mezzo: manca una classe politica omogenea, manca un disegno politico, un progetto culturale. Il populismo in pratica diventa una necessità, proprio perché non c’è una classe politica capace di portare avanti una sua linea e la democrazia interna è diretta e plebiscitaria.

Il fatto che Fini in questi mesi si sia ritagliato una posizione critica nei confronti del leader aiuta a creare dibattito e a formare un disegno politico oppure no?

È legittimo che il cofondatore del Pdl non viva all’ombra del leader e guadagni una posizione autonoma. Se però andiamo a leggerne i contenuti emerge subito tutta la sua fragilità. Da parte sua non c’è stata alcuna contrapposizione al fenomeno del berlusconismo, né il tentativo di rappresentare l’anima profonda del centrodestra. Con le sue posizioni si è invece collocato all’esterno del territorio elettorale e politico da cui proviene, guadagnando in visibilità mediatica, ma in scarsissima presa politica.

Ha rinunciato in pratica a essere un interlocutore per quel popolo di centrodestra di cui parlava prima?

Esattamente, ha reciso il legame con quella base sostenendo tesi laiciste o comunque lontane dalla storia e dall’identità della destra in Italia. Non si tratta però della cosiddetta “destra moderna”, alla Sarkozy, come si usa dire.

Cosa intende?

 

In estrema sintesi il programma di Sarkozy è basato sull’opposizione al pensiero francese figlio del ‘68. Fini ha invece parlato del ‘68 come della grande occasione mancata da parte della destra italiana. In questo modo finisce sempre più nella “terra di nessuno”. 

Se questa è la sua fredda analisi dello stato di salute del Pdl, cosa si aspetta da queste elezioni? Il popolo del centrodestra a cui si riferiva prima potrebbe cedere alle sirene della Lega?

Gran parte del “popolo della libertà” è irriducibile alla Lega, ma c’è una cospicua area contigua al popolo leghista. Lo scoramento e la mancanza di riferimenti potrebbero portare a un travaso di voti, ma non sarà il “pasticcio” delle liste a spostarli. Verranno invece pagate le candidature sbagliate, come ad esempio in Puglia.

Da aprile in poi si aprirà l’ultima parte della legislatura, cosa ci si potrà aspettare da questo periodo libero, per tre anni, dagli appuntamenti elettorali?

Archiviate le regionali sarà il momento dei chiarimenti, senza dubbio, ma tutto dipenderà dal risultato. Una sconfitta del Pdl rinfrancherebbe i dissidenti, un buon risultato rafforzerebbe, ovviamente, il premier. I disegni post-berlusconiani sono comunque vivi, ma congelati fino al momento del ritiro dalla scena del Presidente del Consiglio.

Berlusconi sarà comunque in prima fila in questa campagna elettorale o sarà più defilato del solito, temendo un risultato deludente?

L’impressione è che la prudenza di Berlusconi nasconda il timore di risultati non eccezionali, anche se in questo momento sta contando di più la delusione per gli errori commessi e i conflitti con i dirigenti locali. Detto questo, ho l’impressione che la chiamata alle armi ci sarà comunque e il temperamento prevarrà, ancora una volta, sulla strategia.