A Palazzo Grazioli il vertice notturno di ieri tra Bossi, Berlusconi e i coordinatori di Lega e Pdl ha sancito l’accordo sulla riforma istituzionale di cui si parla da qualche settimana. Si attendono, a questo punto, le contromosse dell’opposizione. Bersani ha definito la bozza Calderoli “impotabile” e non sembra intenzionato a trattare. Fini, che oggi finalmente incontrerà Berlusconi, è fermo su una posizione critica.
Difficile dire se la maggioranza riuscirà a trovare un compromesso, ma il lungo cammino delle riforme condivise sembra avere un inizio decisamente in salita. Peppino Caldarola ne ha discusso con ilsussidiario.net.
Dopo il vertice di ieri sera tra Berlusconi e Bossi, nel centrodestra si attende di scoprire come andrà l’incontro odierno tra il premier e il presidente della Camera. Com’è cambiato il rapporto politico tra i due dopo queste elezioni?
A mio parere è rimasto pessimo e il fatto che il loro incontro sia stato continuamente rimandato lo conferma. Nel merito, poi, le loro sembrano posizioni inconciliabili. Secondo Fini l’introduzione del semipresidenzialismo esigerebbe una contemporanea riforma elettorale in favore del doppio turno. Berlusconi predilige invece il turno unico e, in ogni caso, pensa a una possibile riforma elettorale solo dopo le riforme istituzionali.
Fini ha dichiarato che le riforme si potranno fare anche senza l’accordo con l’opposizione. Secondo lei quanto è probabile questo ipotetico accordo tra i poli?
La discussione sui modelli è partita male, è spezzettata e contraddittoria. Fino a quando nessuna delle parti in causa si assumerà la responsabilità di disegnare tutta l’architettura istituzionale a cui aspira, in modo da poter capire il ruolo di ciascun organo, sarà difficile intendersi. È un compito che spetta a entrambi ed è l’unico modo per permettere all’opinione pubblica di capirci qualcosa.
La riforma istituzionale è a suo avviso prioritaria?
A mio parere no. Penso che la priorità rimanga quelle delle riforme economiche: abbiamo una fiscalità che grava eccessivamente su lavoratori dipendenti, pensionati, lavoratori autonomi e famiglie. Riformare la forma di governo in questo momento sembra proprio un lusso.
La Lega anche ieri è tornata a lanciare un’ipotesi suggestiva: Berlusconi al Quirinale e un premier leghista nel 2013. È plausibile?
Sembra evidente che Berlusconi non voglia farsi impiccare all’incarico di premier. Il Presidente del Consiglio è realista, sa che non riuscirà a realizzare tutte le riforme di cui stiamo parlando. Per questo motivo, sposta l’attenzione sul tema di un “governo senza pieni poteri”. Così sta un po’ al governo e un po’ all’opposizione, come ha sempre fatto. Rischiamo però di rituffarci in una lunghissima campagna elettorale con queste ipotesi all’orizzonte.
Il peso della Lega nella maggioranza si è molto accentuato dopo questa tornata elettorale?
La Lega sarà sempre più determinante, senza dubbio, ma non credo a un Berlusconi sotto ricatto. Il patto tra Bossi e Berlusconi forse non è mai stato così chiaro. Non escludo dei cambiamenti nel centrodestra da qui a tre anni, ma in un altro direzione.
Cosa intende?
Vedo come molto probabile il “ritorno a casa” dell’Udc. Tenendo conto che, al di là della discussione sul semipresidenzialismo, fra tre anni voteremo con il sistema attuale, mi sembra la cosa più probabile. Casini deve capire che cosa vuol fare da grande. In mano ha il suo 5%, ma è chiaro che se non lo investe la sua rendita di posizione svanisce.
Il Pd, invece, sembra cercare una svolta, un cambio di marcia dopo il risultato negativo delle elezioni regionali e le sconfitte dei ballottaggi, tra cui spicca il caso mantovano. Da dove può ripartire secondo lei il partito di Bersani?
Mantova fa storia a sé, la caduta della roccaforte lombarda nasce dalle divisioni interne al partito, ma si inserisce nel quadro di una tendenza alla sconfitta che la sinistra continua a confermare al Nord. Come da tempo sostengono Chiamparino e Cacciari, la “Questione Settentrionale” deve essere affrontata dal Pd al più presto. Prodi un tentativo in questo senso l’ha fatto.
Non sembra però che la sua proposta sia stata molto apprezzata all’interno del Partito Democratico?
È stata accolta con freddezza e irritazione, rimane però decisamente interessante perché ripensa al partito legando radicamento e leadership, con una struttura di 20 segretari regionali.
Se l’obiezione è soltanto quella di un’eventuale emarginazione di alcune personalità come Veltroni e D’Alema, penso che non sia un grosso problema. Potrebbero benissimo ritagliarsi un ruolo grazie alle loro fondazioni o tornare a misurarsi sul territorio, candidandosi alle segreterie regionali. C’è poi un altro possibile punto di svolta che nessuno ha sottolineato.
Quale?
Con questo modello si supererebbero le antiche appartenenze, le divisioni tra ex Ds ed ex Margherita, un tessuto connettivo che viene dal passato e che, forse, non ha più senso.
Qualcuno però ha letto in questo contributo un’ambizione personale, una vendetta e una minaccia al meccanismo delle primarie?
Mi sembrano francamente valutazioni dettate da pregiudizi nei confronti del Professore. Ha dichiarato che vuol rimanere fuori dalla politica nazionale e mi sembra che gli si possa credere. C’è chi lo vede addirittura verso il Quirinale, a me sembra invece più vicino alla poltrona di sindaco di Bologna. Sulle primarie, al di là della retorica, anche nel sistema attuale sono solo la conferma di ciò che viene deciso nei congressi. Se si ripensa all’elezione di Bersani segretario è evidente che è così.
Ma il partito federale non potrebbe rafforzare ancora di più i potentati locali che qualche problema al Pd l’avevano già creato? I cosiddetti “cacicchi”, come li chiama D’Alema…
I cacicchi sono quei rappresentanti di un partito personale che utilizzano i voti come merce di scambio. La proposta del Professore crea invece maggiore responsabilità a livello locale. Se, ad esempio, si perdono voti in Lombardia il segretario regionale dovrà prenderne atto e cedere il posto. Insomma, una piccola rivoluzione.