Chissà se un giorno uno storico si occuperà di queste elezioni regionali. Nel caso, credo che lo farà soprattutto per occuparsi del successo della Lega che, per le sue dimensioni, segnala una novità sostanziale, e densa di implicazioni a tutt’oggi largamente imprevedibili, non solo nella vicenda politica ma, forse, nella storia nazionale.
Il resto, invece, era prevedibile, eccome, almeno per chi avesse voluto prevedere realisticamente, senza lasciarsi fare prigioniero in una battaglia mediatica che si è sviluppata, a maggior gloria del Cavaliere, come se non di un voto regionale e amministrativo si trattasse, ma di un referendum sul presidente del Consiglio. Per Silvio Berlusconi, una manna. Per il centrosinistra, o come si chiama adesso, un suicidio.
Personalmente sono convinto che Berlusconi e il cosiddetto berlusconismo siano entrati nella fase declinante della loro parabola politica, e l’esito del voto (soprattutto, ma non solo, il successo della Lega) mi sembra confermi questa valutazione. Berlusconi, il Pdl e la Lega hanno davanti a sé tre anni tondi tondi per smentirla, dimostrando che ciò che li unisce è molto più di quel che li divide nel solo modo possibile, portando a compimento cioè quelle riforme che chissà perché sin qui non hanno fatto.
Se non ci riuscissero, sarebbe crisi, crisi vera, ma tutta interna a quel vasto schieramento politico e sociale che va sotto il nome di centrodestra: l’opposizione, la sinistra, l’alternativa ci entrerebbero poco o nulla. Salvo, naturalmente, ripensamenti riconversioni e rifondazioni di cui non si intravede la più labile traccia.
Torniamo all’oggi. Scambiare i primi segni di declino per un imminente tracollo, e considerare queste elezioni come il momento buono per vibrare il colpo di grazia, è stato, per il Pd e il centrosinistra, nel migliore dei casi un wishful thinking, nel peggiore purissima follia. Grazie alla quale un risultato che nel centrosinistra appena qualche mese fa avrebbe provocato, se non certo entusiasmo, almeno un mezzo sospiro di sollievo, viene considerato alla stregua non di una sconfitta, quale innegabilmente è, ma di un disastro di inaudite proporzioni.
E tutto sembra profilarsi, compresa un’ennesima caccia al segretario, fuorché una discussione, un confronto e all’occorrenza uno scontro politico degni di questo nome. Bersani, che ora viene messo in croce perché non sarebbe riuscito a matare Berlusconi, da quel politico sin troppo realista che è in campagna elettorale ha fatto il possibile per stemperare questo clima, limitandosi a dire: “Il vento sta cambiando” (ed era già una valutazione eccessivamente ottimista). E dopo il voto si è inventato a caldo, ricorrendo al lessico del vecchio Pci, una “inversione di tendenza” che ha visto solo lui.
Le critiche nei suoi confronti sono più che comprensibili: ma veder muovere all’assalto del segretario del Pd quelli che (Repubblica in testa) avevano creato le insane aspettative di cui sopra è politicamente e persino moralmente fastidioso. Tanto più che l’unica alternativa che sono in grado di prospettare è il ritorno a una “vocazione maggioritaria” (leggi: autosufficienza) del Pd, con deroga specialissima a Di Pietro e all’Italia dei Valori, che è per molti aspetti all’origine dei guai attuali.
In realtà, queste elezioni riconsegnano intatte, e anzi assai aggravate, al Pd le due questioni cruciali, identità e alleanze, su cui questo partito sbatte la testa sin dai suoi albori. E, prima ancora, gli impongono quella che un tempo veniva gramscianamente definita una “ricognizione della questione nazionale”: se non si sa esattamente in quale paese si vive è molto difficile che si possano produrre idee e programmi utili per condurlo verso altri lidi.
Per avviarsi su questa strada servirebbero una leadership forte e strumenti politici e intellettuali adeguati. Mancano entrambi, e nessuno sembra sapere dove e come si potrebbero individuare. Il pessimismo della ragione è d’obbligo. E anche l’ottimismo della volontà è sottoposto alla più dura delle prove.