Né scissione, né elezioni. Queste le parole d’ordine di Gianfranco Fini pronunciate domenica nello studio televisivo di Lucia Annunziata e ribadite ieri nel colloquio con i fedelissimi.
Dopo lo scontro feroce con Berlusconi alla Direzione Nazionale del Pdl l’potesi di un gruppo autonomo dei finiani e quella di voto anticipato non sembravano poi così lontane. Lecito quindi parlare di passo indietro del Presidente della Camera, anche se nella maggioranza la tempesta non sembra passata. «Il Pdl sta camminando su una sottile lastra di ghiaccio – dice infatti Stefano Folli a IlSussidiario.net. La contrapposizione tra i due leader non è principalmente personale, è politica ed è destinata a venire a galla sempre di più».



L’invito alla collaborazione lanciato da Berlusconi agli avversari e la dichiarazione di fedeltà al governo da parte di Fini segnano una svolta in quella che è stata definita la crisi del Popolo della Libertà?

Nonostante le apparenze non è cambiato nulla. Siamo davanti ai risvolti mediatici di una questione politica permanente e ancora irrisolta: possono convivere due visioni del centrodestra così diverse, quella istituzionale di Fini e quella carismatica di Berlusconi? Il nodo non si è ancora sciolto perché se da un lato questa convivenza sembra impossibile, dall’altro la separazione non conviene a nessuno.

Quanto potrà durare, secondo lei, questo equilibrio precario?



Difficile dirlo, man mano che si avvicinerà il momento delle riforme le differenze emergeranno sempre di più. Sarà infatti molto difficile trovare una sintesi tra Bossi e Fini sul federalismo, o tra Fini e Berlusconi sul tema della giustizia. 

Se dall’interno del partito Fini è deciso a continuare la battaglia, dall’esterno la Lega ha ribadito di volere un unico interlocutore e non sembra intenzionata ad accettare ritardi sulla strada delle riforme. Berlusconi può in qualche modo uscire dall’angolo?
 

Escludendo l’espulsione di Fini, che comunque metterebbe in difficoltà la maggioranza nei due rami del Parlamento e rappresenterebbe una sconfitta politica, in linea teorica si potrebbe andare a elezioni anticipate. Sono però un processo complicato da gestire e per il quale serve molta abilità politica per evitare che le conseguenze ricadano su chi le ha provocate. Nel nostro sistema serve poi l’accordo con il Capo dello Stato. Per tutti questi motivi Berlusconi ha deciso di cambiare strategia.



Cosa intende?

Parlando di riforme condivise e tornando a essere conciliante Berlusconi prova la strada delle riforme, pur sapendo che saranno molto difficili da realizzare. Se l’obiettivo non sarà raggiunto avrà creato però le premesse per arrivare, con l’accordo di Napolitano, allo scioglimento delle Camere.

Nel frattempo il fatto che il Presidente della Camera stia portando avanti una battaglia politica può creare un cortocircuito istituzionale o comunque preoccupare il Colle?

Effettivamente Fini, facendo sia l’arbitro che il giocatore in campo, porta alle estreme conseguenze ciò che già era successo con Casini e Bertinotti, e crea uno squilibrio istituzionale che non può che preoccupare Napolitano, nonostante la grande sintonia che i due hanno avuto sin qui. L’ex leader di Alleanza Nazionale però non si dimetterà e il premier non può sfiduciarlo.

Tornando alle riforme, su quale tema si può realisticamente trovare un accordo con l’opposizione?

Innanzitutto occorre dire che la riforma presidenzialista in questo momento è fuori dal novero delle cose possibili, così come il patto repubblicano proposto da Bersani a Fini che dà a un centrosinistra senza posizione l’illusione di avere una linea. Bisognerebbe, invece, partire da riforme che aiutino il sistema produttivo a ritrovare competitività e ridiano slancio alle imprese, come l’alleggerimento del fisco.

Con quali risorse?

 

Se non si chiarisce questo punto non si capisce per quale motivo senza una larga maggioranza non si riformerà mai il Paese. Le riforme vere costano, sempre. In un momento di crisi come quello che stiamo attraversando la politica dovrebbe avere il coraggio di andare a intaccare il consenso, distribuendo in modo omogeneo i costi politici dell’operazione, senza che qualcuno possa così ricavarne un vantaggio. L’obiettivo delle riforme, infatti, spesso viene fallito non tanto perché ci sono delle forze che non vogliono il cambiamento, ma soprattutto perché la politica non si prende questa responsabilità.

Nel caso del fisco cosa bisognerebbe fare perciò?

Per ridurre la pressione fiscale senza rinunciare al gettito non resta che tagliare sensibilmente le spese e gli sprechi dell’apparato statale, che però costituisce la base stessa del consenso per le maggioranze di ogni colore. Per questo motivo senza una reale convergenza le riforme possono rimanere un miraggio.

Da ultimo, come legge il silenzio di Casini in questo momento di travaglio per il bipolarismo?

A mio parere il leader dell’Udc è in grave difficoltà, Fini gli ha rubato la scena, i contenuti e i cavalli di battaglia. Sul piano elettorale, poi, deve registrare un risultato negativo. Le alleanze variabili non pagano: l’Udc perde consenso quando si allea con la sinistra, nel Lazio invece rimarrà fuori dalla giunta pur avendo vinto.
Forse Casini sta pensando di tornare nel centrodestra, ma inserirsi all’interno della frattura tra Berlusconi e Fini non sarà certo un’impresa facile.