Il piano di “demerger” della Fiat e il clamoroso scontro tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini ai vertici del Pdl – ma forse anche l’approdo di Francesco Gaetano Catlagirone alla vicepresidenza delle Generali – hanno creato negli ultimi giorni le condizioni potenziali per cambiamenti negli assetti proprietari dei grandi quotidiani italiani.



L’opzione strutturale scelta da Sergio Marchionne per la “nuova Fiat” – ora presieduta da John Elkann – lascia infatti il controllo de La Stampa e la quota pregiata in Rcs (10,5%) dentro l’attuale capogruppo. Oggetto di spin-off nella nuova Fiat Industrial – stando agli annunci – saranno infatti le attività diversificate (Cnh e Iveco) e non l’auto come inizialmente ipotizzato.



E La Stampa al cui vertice Luca Cordero di Montezemolo aveva già ceduto il posto al nipote dell’Avvocato non si ritroverà fra gli asset che la famiglia Agnelli si è riservata come “tesoretto” rispetto all’auto: almeno questa era la visione originaria del riassetto da parte dei mercati. Per ora resta invece incorporata nelle attività produttive che Marchionne sta ristrutturando su scala globale, sempre più lontano dal Lingotto. Quelle attività che, negli obiettivi di Marchionne, dovrebbero portare Fiat-Chrysler a produrre 6 milioni di auto entro il 2014, anche senza Opel: prevedibilmente con un partner, se non addirittura “dentro” uno dei colossi-auto rimasti.



Che spazio c’è per le partecipazioni editoriali all’interno di questo contenitore? La Stampa e la quota Rcs saranno oggetto di uno scorporo ad hoc? E l’approdo sarà la cassaforte familiare Exor (con un’ulteriore scissione o con una vendita) oppure vi saranno sviluppi innovativi?

Il quotidiano torinese è esemplare del caso di un gruppo editoriale di dimensioni ormai ridotte, controllato da una famiglia non editrice, attraverso un polo industriale in fase di profonda ristrutturazione e senza alcuna prospettiva di sinergia interna. È un quotidiano che – dopo un impegnativo restyling di formato e grafico – è in trincea nel difendere una posizione ibrida tra il nazionale e il locale.

Ma il 2009 si è chiuso il profondo rosso (17 milioni) non diversamente da altri gruppi attivi nell’editoria quotidiana: tra cui la stessa RcsMediagroup. E l’uscita di scena di Montezemolo – da sempre interessato al mondo media e sempre al centro di rumor di impegno politico – pare rendere meno strategica la storica (e costosa) funzione di voce autorevole di una famiglia e di un’azienda-paese per eccellenza.

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La situazione de La Stampa non è d’altronde troppo diversa da quella de Il Giornale, di cui Berlusconi ha personalmente annunciato un riassetto proprietario in diretta tv, nella fase più concitata del suo scontro con Fini in direzione Pdl. Berlusconi ha prefigurato «un’apertura del capitale» della società editoriale che segnò la sua discesa in campo nel mondo dei quotidiani: quando finanziò Indro Montanelli in un’avventura considerata sia politicamente che finanziariamente senza futuro.

 

E invece Berlusconi (che oggi ha come braccio destro a Palazzo Chigi l’ex direttore de Il Tempo Gianni Letta) capì che per confrontarsi con Gianni Agnelli, Enrico Cuccia, Cesare Romiti o Carlo De Benedetti doveva dotarsi di un “segnaposto” adeguato al tavolo dei giornali. Mediaset rese poi Il Giornale apparentemente datato e poco pesante nell’artiglieria mediatica che preparò e poi sostenne con successo l’ormai “quasi ventennio” del Berlusconi premier. Ma non è mai diventato obsoleto, neppure quando l’editore formale è diventato il fratello del Cavaliere.

 

È Il Giornale di Vittorio Feltri ad aver condotto – con indubitabili risultati oggettivi – la dura controffensiva di fine 2009, quando Berlusconi era premuto dalle inchieste giornalistiche de La Repubblica. Ed è su questi risultati che oggi Feltri è addirittura al centro di clamorosi gossip su un possibile ritorno a Il Corriere della Sera, mentre più realisticamente sarà parte attiva nella ricerca dei nuovi partner per Il Giornale. Per paradosso, a sollecitare il riassetto che avvicinerebbe la parabola di Feltri a quella di Eugenio Scalfari, è quello stesso Fini che il quotidiano milanese ha preso di mira. Anche il gruppo Pbf-Arcus che controlla Il Giornale ha tuttavia affrontato periodiche ricapitalizzazioni per ripianare perdite strutturali.

 

Un rosso di 39 milioni a fine 2009 (anche se le previsioni per il 2010 sono di un ritorno all’utile) ha registrato anche Caltagirone Editore: altro “produttore” di quotidiani che fa capo a una famiglia ormai divenuta importante nel capitalismo nazionale e nello scacchiere di potere che circonda finanza e media.

 

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L’ascesa del “patron” Francesco Gaetano Caltagirone a vicepresidente delle Generali – a fianco del neo-presidente Cesare Geronzi – è certamente una consacrazione finale per un personaggio i cui interessi ormai spaziano dalle costruzioni (Cementir e Vianini) alle banche (Montepaschi) alle grandi utility (Acea e Adr). La filiera di quotidiani (Il Messaggero a Roma, Il Mattino a Napoli, Il Gazzettino nel Nordest) per Caltagirone non è solo uno strumento importante d’opinione a cavallo tra grandi città di aree importanti del paese, ma anche una piattaforma industriale. Non a caso sono note le “avance” dell’imprenditore romano verso La Stampa, ritenuta aggregabile in un progetto più ampio.

 

È ancora presto per capire se – in luogo di un tradizionale “valzer delle direzioni” a cavallo di un chiarimento politico-finanziario – i prossimi mesi apriranno invece un risiko delle proprietà. Senza tuttavia dimenticare che altri poli gruppi (dal “salotto buono” Rcs al Gruppo 24 Ore al gruppo Poligrafici, nel quale è appena entrato con una piccola quota Diego ella Valle) stanno affrontando impegnative riorganizzazioni.