Le coraggiose sortite dei neo-governatori leghisti Roberto Cota e Luca Zaia sul tema della pillola abortiva RU486 hanno scatenato una ridda di reazioni scomposte, oltre al consueto becero repertorio di contumelie. Rozzi, retrogradi, oscurantisti, reazionari e adesso pure baciapile, sanfedisti, zuavi e papalini.

Le accuse più benevole rivolte ai due malcapitati presidenti sono state di ignoranza della legge, di mancanza di rispetto del principio di legalità, di analfabetismo giuridico, di totale incompetenza, di travalicamento dei poteri e di grossolana ed arrogante somaraggine.



Io che mi picco di conoscere alquanto bene la Legge 22 maggio 1978, n. 194, recante «norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza», posso, invece, confermare la piena fondatezza delle posizioni assunte dai due presidenti delle regioni Piemonte e Veneto.

Mi riferisco, in particolare, agli articoli 15 e 19 della predetta legge 194. La prima di queste disposizioni rappresenta la fonte normativa del potere di intervento da parte dei governatori, in quanto precisa che sono proprio «le regioni» a promuovere l’aggiornamento «sui problemi della procreazione cosciente e responsabile, sui metodi anticoncezionali, sul decorso della gravidanza, sul parto e sull’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza». Nulla quaestio, quindi, sul fatto che i presidenti regionali abbiano una voce in capitolo sulle nuove tecniche abortive – tra cui certamente rientra la Ru486 – e sul dovere di garantire che le stesse si dimostrino, come afferma la legge, «più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza».



La seconda disposizione normativa da tenere presente è l’art. 19 della Legge 194/78, il quale conferma l’assunto secondo cui in Italia l’aborto volontario è reato ed è punito con pene che differiscono a seconda delle diverse ipotesi. Reclusione sino a tre anni, o reclusione da uno a quattro anni per chi cagiona l’aborto. Multa di euro 51,65, o reclusione sino a sei mesi per la donna che abortisce. Le pene sono aumentate fino alla metà nel caso l’aborto riguardi donne minori o interdette. Se dall’interruzione volontaria della gravidanza deriva la morte della donna, si applica la reclusione da tre a sette anni. Se ne deriva una lesione personale gravissima si applica la reclusione da due a cinque anni. Se la lesione personale è grave quest’ultima pena è diminuita, mentre le pene vengono aumentate se la morte o la lesione riguardano donne minori od interdette.



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Il reato non sussiste nel caso in cui ricorrano alcune specifiche condizioni contemplate dalla Legge 194, tra cui quella prevista dall’art. 8, la quale impone che l’interruzione della gravidanza sia «praticata da un medico del servizio ostetrico-ginecologico presso un ospedale generale». Pertanto, la questione relativa alla possibilità di somministrare la pillola Ru486 attraverso ricovero in day-hospital e con espulsione del feto a domicilio, semplicemente non esiste, in quanto tale modalità integrerebbe il reato previsto e punito dall’art. 19 della Legge 194/78.

 

La conseguenza di tale ragionamento è che i presidenti Cota e Zaia hanno non solo il diritto ma persino il dovere di bloccare la somministrazione della pillola Ru486, al fine di garantire la piena applicazione della Legge 194 ed impedire la commissione di reati, così come hanno il dovere di valutare se le nuove tecniche abortive siano effettivamente «più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza» (art. 15 della Legge 194).

 

Due considerazioni a corollario. È davvero singolare che contro i neo-governatori leghisti i primi ad invocare un intervento da parte dello Stato siano proprio coloro che, in nome della sacrosanta autonomia regionale, hanno da tempo deciso di somministrare la Ru486 (ad esempio Toscana, Emilia Romagna e lo stesso Piemonte fino all’arrivo di Cota) infischiandosene bellamente delle direttive del Ministero della Salute e dei pareri del Consiglio Superiore di Sanità. È un classico esempio di federalismo schizofrenico tanto caro a certa sinistra.

 

La seconda considerazione è rivolta a tutti quei cattolici adulti i quali sostenevano, per giustificare candidature impresentabili, che, in fondo, attraverso le elezioni regionali si andavano ad eleggere semplicemente degli organismi amministrativi locali che nessuna competenza reale avevano sui grandi temi eticamente sensibili. Si trattava, secondo alcune animelle pie, di eleggere persone capaci ed in grado di amministrare bene, indipendentemente dal proprio orientamento politico, per cui le gerarchie cattoliche male avevano fatto a porre nell’arena della campagna elettorale questioni quali l’aborto, la famiglia e l’educazione scolastica.

 

Beh, a giudicare dalle prime sortite dei presidenti neoeletti del Piemonte e del Veneto, e dal dibattito che ne è seguito, bisogna concludere che il velleitarismo irenico o la mera disonestà intellettuale dei cattolici adulti sono stati sconfessati, ancora una volta, dalla cruda realtà dei fatti. Realtà che da Oltretevere i Pastori riescono, evidentemente, a vedere e giudicare molto meglio di tante pecorelle confuse.