Paradossalmente, proprio nella sconfitta, il Pd di Bersani e D’Alema si trova ad essere determinante. Il contenuto dei prossimi tre anni di governo ed il disegno del futuro scenario elettorale dipendono in buona parte dalla scelta che il Pd farà. In sostanza: o Giorgio Napolitano o Antonio Di Pietro. Da tempo il Presidente della Repubblica, pur nel rispetto del proprio ruolo costituzionale, sollecita un’evoluzione del bipolarismo in un quadro di alternanza non traumatica senza reciproche demonizzazioni.



Sul piano istituzionale il Quirinale opera per lo svelenimento dei rapporti tra magistratura, mass media e potere politico e sul piano politico-culturale con diverse “esternazioni” – dal messaggio di fine anno alla lettera alla vedova di Craxi – persegue la speranza che in Italia cresca una sinistra togliattianamente “tranquilla” in un quadro laburista-progressista non solo senza estremismi, ma nemica dell’estremismo soprattutto in un momento di recrudescenza del terrorismo.



Al contrario dell’ex pm milanese, Gerardo D’Ambrosio, Napolitano sembra scartare l’ipotesi secondo cui il terrorista di oggi possa essere un “pazzo” e si preoccupa che non aumenti l’“acqua sporca” in cui gli sia più facile nuotare. Se invece il Pd si accoda a Di Pietro e legge l’astensionismo e la perdita del ruolo di guida in importanti Regioni del Nord e del Sud come il risultato di un “colpo di stato” e di una “manipolazione”, finisce per seguire chi considera persa la “via democratica” e attribuisce un valore salvifico solo alla “via” se non antidemocratica comunque straordinaria ed extraparlamentare.



Avremo allora un Pd avvitato con l’Italia dei Valori e che aspetta l’“arrivo dei nostri” per via massmediatica e giudiziaria: Berlusconi avrebbe manipolato la “democrazia formale” e come espressione della mafia e della P2 attua la distruzione della democrazia sulla base di un consenso populista-plebisciatario in nome della mafia attraverso stragi e corruzione. L’unico modo per fermare Berlusconi è quello di suscitare moti di piazza, inchieste giornalistiche e arresti giudiziari.

Sulla strada di Napolitano il Pd deve invece rompere con Di Pietro dando vita ad un raggruppamento che punta alla conquista di consensi al centro e lasciando – come fece Mitterrand nella Francia degli anni ’80 – l’elettorato dell’estrema sinistra di fronte alla scelta: o il voto inutile che fa vincere la destra o il voto regalato alla sinistra riformista senza contropartite. Scegliere la strada della sinistra competitiva nel contrastare Berlusconi che contende e raccoglie consensi al centro – come è logico nelle competizioni bipolari – significa rinunciare al bullismo. Considerare l’avversario un interlocutore significa rinunciare ad indicarlo come “pericolo per la democrazia”. Si tratta di uscire da un’opposizione che vive l’Italia come un cartone animato dove dominerebbe un “regime” che blocca, ad esempio, l’informazione. Proprio una recente ricerca dell’Osservatorio di Pavia dimostra che la Tv pubblica italiana – la Rai – è l’unica Tv pubblica di tutta Europa a dare tanto spazio: alla politica, alla opposizione e alle divisioni tra i partiti di maggioranza e all’interno del partito di maggioranza relativa.

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Uscire dall’ammucchiata antiberlusconiana è per il Pd una scelta importante in quanto nel prossimo futuro la politica italiana si troverà ad affrontare temi che riguardano temi essenziali della vita dei cittadini come la salute e la giustizia. Questioni fondamentali come la cura del malato terminale, la reputazione e la libertà delle persone, la sicurezza dei cittadini richiedono che i politici le affrontino non con “durezza di cuore”. Abbiamo di fronte situazioni concernenti la sofferenza del singolo, della famiglia e della collettività che richiedono un approccio “in punta dei piedi” e non gente che salga sul ring nel segno dell’odio e del disprezzo verso punti di vista alternativi che vanno invece studiati e rispettati. Non è con politici-bulli, medici-bulli, giornalisti-bulli, magistrati-bulli che in Italia si possano discutere e definire gli approcci e le soluzioni su simili materie.

 

La scadenza più immediata per far uscire il bipolarismo italiano da un’alternativa “bullista” è sicuramente la celebrazione del prossimo 25 aprile. In particolare a Milano. Che cosa facciamo? L’ennesima gazzarra dove teppisti ed estremisti insultano i rappresentanti delle istituzioni e legittimano l’opposizione violenta allo Stato? Cosa intendono fare Bersani e Penati? Far finta di nulla, cadere dalle nuvole e ridere sotto i baffi mentre gli estremisti diventano i “padroni di casa” dell’antifascismo? Intendono recitare la vecchia scena degli anni ’50 in cui i comunisti si vantavano di essere i soli e i veri democratici, che “integravano” le masse dello Stato, ma lamentandone la gran fatica dato che la classe operaia era per sua natura “rivoluzionaria” ed il governo “reazionario”?

 

Da tempo si prepara la celebrazione del prossimo 25 aprile a Milano nel peggiore dei modi. Si fanno riunioni di partigiani al motto dei “fischi democratici”. Già nel cosiddetto “Comitato antifascista per la difesa permanente dell’ordine pubblico repubblicano” si organizza la messa in scena di una manifestazione indetta “unitariamente”, ma da svolgere “settariamente”. Napolitano è stato invitato, ma ha rifiutato di venire. Si è quindi passati ad ipotizzare la presenza di un ex Capo dello Stato, ma la proposta di far venire Francesco Cossiga è stata subito sprezzantemente scartata. E così anche per quanto riguarda la partecipazione delle istituzioni locali si vorrebbe evitare che Formigoni possa prendere la parola. E se lo farà sono pronti “i fischi democratici”.

Il Comitato Antifascista originariamente venne promosso dal sindaco socialista Aldo Aniasi dopo la strage di piazza Fontana con l’obiettivo di radunare il più ampio arco democratico di istituzioni e partiti. La presidenza doveva essere ricoperta a rotazione annuale da esponenti dei vari partiti, ma rimase al comunista perché in quell’inizio degli anni ’70 i vertici di Comune, Provincia e Regione erano Dc e Psi. Oggi quel Comitato è diventato tutt’altra cosa: vede come soggetti politici solo i partiti dell’opposizione di sinistra (Pd, Sd, Prc, Sdi, Pdci) con categorica esclusione degli enti locali e degli altri partiti antifascisti.

 

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Il Pdl è oggi il partito dei Presidenti del Senato, della Camera, del Governo, della Regione, della Provincia e del Sindaco di Milano. Neofascismo?

Già il prossimo 25 aprile Bersani dovrà quindi scegliere se far parte dei “furbetti dell’antifascismo” o celebrare la Liberazione come Palmiro Togliatti al Congresso ricostituivo del Pci nel 1945: «Ricorderemo in eterno i soldati e gli ufficiali inglesi, degli Stati Uniti, della Francia, dell’Africa del sud, dell’Australia, del Brasile, i quali hanno lasciato la loro vita o versato il sangue loro per la liberazione del suolo della nostra patria. Il loro nome vivrà nel cuore del nostro popolo».

 

L’anno scorso grazie al discorso di Giorgio Napolitano che riportava in primo piano il ruolo dei militari nella fondazione della Resistenza (a cui si associava il discorso di Berlusconi in Abruzzo) il 25 aprile rappresentò una giornata in cui la memoria dei caduti della lotta di liberazione fu celebrata in modo più degno che in passato, ma Milano rimase teatro dei “fischi democratici”. Se per antiberlusconismo si vuol fare carta straccia della Resistenza la via che si imbocca è quella di una sinistra eternamente minoritaria, immobile in una “gran bonaccia delle Antille” come era il Pci degli anni ’50 dopo la sconfitta del Fronte Popolare. All’epoca il Pci aveva personalità come Pietro Secchia e Giancarlo Pajetta, oggi il Pd li sostituirebbe con un Antonio Di Pietro ed un Michele Santoro.