Il ritornello delle “riforme condivise” riecheggia sui giornali dallo scorso dicembre, in seguito all’aggressione subita dal Presidente del Consiglio in Piazza Duomo a Milano. I buoni propositi natalizi sono poi stati congelati durante la campagna elettorale, con l’impegno di riportarli alla luce dopo le elezioni regionali. Il momento della verità è arrivato e, come ha sottolineato lo stesso Presidente Napolitano, i prossimi tre anni costituiscono una straordinaria occasione per sciogliere quei nodi che da anni la politica non ha più saputo affrontare.



Pdl e Lega Nord, nel vertice di martedì, hanno trovato un accordo perfezionando i meccanismi di decisione interni, il Pd preferisce invece aspettare di conoscere i contenuti di questo patto per potersi pronunciare. Ne abbiamo discusso con il Sen. Enrico Morando del Partito Democratico.

I temi presenti nell’agenda delle riforme sono molti e complessi e la stessa “condivisione” tra gli schieramenti non sembra poi così agevole. A livello di metodo quali saranno le attenzioni da avere per riuscire a riformare il Paese?



La condizione per raggiungere l’obiettivo delle riforme è una sola e riguarda in primo luogo il mio partito: il Pd deve presentare, al più presto possibile, un preciso disegno di riforma istituzionale che contenga delle proposte serie su tutti i problemi aperti. Per questo invito il mio partito a rompere gli indugi e ad anticipare il governo.

Il Pd sta mantenendo una posizione troppo attendista secondo lei?
 
Direi di sì, ma aspettare la maggioranza per formulare delle controproposte è un errore, non può essere l’atteggiamento di un grande partito che si presenta come l’alternativa di governo. Anche se non nutro grandi illusioni sull’effettiva disponibilità del centrodestra al dialogo, non cambio opinione in questo senso.

Passando dal metodo al contenuto: quale forma di governo è a suo avviso la più adatta per il nostro Paese?



A mio avviso abbiamo due alternative, come già indicava la Bicamerale D’Alema: il semipresidenzialismo alla francese, che a mio parere andrebbe benissimo, o il cosiddetto “premierato forte”, una sorta di costituzionalizzazione di ciò che già avviene nel nostro Paese. È dal ’94 che gli italiani sono chiamati a scegliere i partiti di governo e il capo dell’esecutivo.

Sul semipresidenzialismo alla francese quindi è d’accordo con il ministro Maroni. Luciano Violante l’ha però bocciato ieri in un’intervista, mentre Bersani si è detto preoccupato per queste ipotesi di “presidenzialismo a curvatura populista”.

Rispetto la tesi di Violante, ma non la condivido, anche se giustamente lega la nuova forma di governo alla riforma elettorale. A questo proposito sono convinto che una delle due opzioni abbinata a un sistema elettorale uninominale maggioritario a doppio turno (come già proponeva l’Ulivo) sia un’ottima soluzione. Rispetto a ciò che dice Bersani sottolineo che le due ipotesi che spiegavo prima sono praticate con successo in Europa e non solo. È un errore considerare queste soluzioni come non appropriate in base a quel “complesso del tiranno” che aveva senso dopo il Fascismo, ma oggi non più.

È d’accordo con la proposta di ridurre in tempi brevi il numero dei parlamentari?

Mi sembra un punto condiviso da gran parte delle forze politiche, così come il superamento del “bicameralismo perfetto” e l’istituzione del Senato Federale.

Su questi temi la bozza Violante è perciò un buon punto di partenza?

Direi di sì, con una più accentuata riduzione del numero dei parlamentari. Se si costruisce il Senato Federale e quindi nel procedimento legislativo abbiamo il protagonismo di una camera che rappresenta il sistema delle autonomie locali possiamo essere più drastici nella riduzione del numero dei parlamentari nell’unica camera politica depositaria della fiducia nei confronti del governo.

Veniamo poi al delicatissimo tema della giustizia…

 

Anche sulla giustizia dovremmo confrontarci sulle proposte della Bicamerale: assoluta autonomia della magistratura inquirente e giudicante, distinzione netta tra le funzioni di entrambe e due sezioni distinte del Csm.

Il ministro Maroni ha anche proposto l’eliminazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Lei è d’accordo?

Su questo punto non sono d’accordo, anche se ho apprezzato la sua intervista. Il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale secondo me va tenuto fermo, affermando però la responsabilità degli uffici giudiziari. Bisognerebbe istituire la figura del manager degli uffici giudiziari che si occupi dell’organizzazione del servizio giustizia, delle performance e della valutazione degli esiti e delle risorse impiegate.

Legato alla giustizia c’è anche il nodo delle intercettazioni. Anche su questo è possibile un accordo con Berlusconi?

Le intercettazioni sono uno strumento di indagine indispensabile. Non possiamo azzoppare le indagini, dobbiamo però porre rimedio alla pubblicazione indiscriminata e illegale delle intercettazioni.

Come si può fare?

Introducendo il responsabile unico della procedura d’intercettazione. Il pm dovrebbe essere responsabile della corretta utilizzazione delle intercettazioni e dovrebbe rispondere di eventuali irregolarità. Anche chi lavora nei media deve però sapere che chi pubblica questo materiale, estorcendolo con l’inganno o con la frode, va incontro a pesanti conseguenze.

Lei si è continuamente riferito alle proposte della Bicamerale, spesso indicata a sinistra come una pagina da dimenticare, quella del tentato “inciucio” con Berlusconi. Quali saranno gli errori da non commettere una seconda volta?

 

 

La Bicamerale aveva terminato i suoi lavori con un preciso progetto di riforma, condivisibile allora e ancora adesso. Oggi non è più necessario creare una struttura ad hoc per elaborare le proposte, perché questo lavoro è già stato fatto. Dobbiamo soltanto delineare delle proposte per poi andare nella sedi parlamentari competenti e ricercare gli accordi necessari.

Molti esponenti del Pd ha si sono dichiarati disponibili al dialogo, lo saranno anche i vostri alleati, a cominciare da Di Pietro?

La questione va posta in modo diverso. Se il Pd vuol diventare ciò che aveva promesso di essere quando è nato deve avanzare le sue proposte sfidando tutti, avversari o potenziali alleati. Se invece da domani iniziamo a fare il giro delle 7 chiese del centrosinistra prima di fare le nostre proposte veniamo meno alla nostra funzione e non facciamo gli interessi del Paese.

Il lavoro dei prossimi tre anni sarà decisivo per il Pd e per l’intero centrosinistra che dovrà ridiscutere le alleanze e trovare una leadership forte?

Per il Pd è il momento di costruire un progetto convincente, rilanciando l’idea originaria: un grande partito riformista a vocazione maggioritaria. Le alleanze si vedranno dopo aver spiegato al Paese come lo vogliamo cambiare. Se ci riusciremo il leader del Pd sarà naturalmente il leader della coalizione di centrosinistra.

E Bersani è l’uomo giusto secondo lei?

In questo momento la sua leadership all’interno del Pd non è in discussione. Secondo me dovremmo convocare, con leggero anticipo, nel 2012, un appuntamento congressuale per prendere una decisione in questo senso. Se Bersani deciderà di candidarsi sarà ovviamente in pole position, se sceglierà diversamente qualcun altro si farà sicuramente avanti.