A un mese dal voto delle Regionali la stagione delle grandi riforme, annunciata all’inizio di un triennio senza tornate elettorali, sembra destinata a continui e ripetuti rinvii. La crisi greca, il travaglio della maggioranza con l’esplodere dello scontro Berlusconi-Fini e le dimissioni del ministro per lo Sviluppo Economico Scajola sono i fatti principali di un’ennesima congiuntura sfavorevole. Marco Tarquinio, direttore del quotidiano cattolico Avvenire discute con IlSussidiario.net l’agenda della politica italiana e i suoi nodi irrisolti.
Che aspettative è lecito avere, alla luce di quanto sta accadendo, in tema di riforme? I due schieramenti sembrano realmente intenzionati a collaborare?
Le aspettative sono notevoli per moltissimi italiani, lo stesso vale anche per chi, come me, è convinto che la Seconda Repubblica non sia mai nata. In questi sedici anni si è andata strutturando, infatti, una sorta di Prima Repubblica e Mezzo, frutto di pronunciate correzioni alla Costituzione materiale e di interventi poco meditati sulla Carta del 1948. Tutto ciò a causa del maggioritario e di una progressiva manomissione del ruolo del Parlamento, nonché, dal 2001 ad oggi, di una sostanziale elezione diretta del premier e di un mezzo-federalismo litigioso.
Per quale motivo a suo giudizio la Seconda Repubblica è rimasta incompiuta?
La Prima Repubblica e Mezzo non è mai diventata Seconda Repubblica per i veri e propri atti di guerra tra potere giudiziario e potere politico che hanno influito pesantemente sul dialogo, impedendo una legittimazione reciproca degli schieramenti. Si è ottenuta così la democrazia dell’alternanza in un clima bipolare, anche se il quadro istituzionale ha perso sempre più equilibrio. Non è un caso se oggi la classe dirigente viene percepita come una “casta” in misura maggiore rispetto che al passato.
Per tutti questi motivi mi auguro che la maggioranza di centrodestra e le sue due opposizioni (di centro e di centrosinistra) siano in grado di condividere un progetto armonicamente riformatore che aggiorni la seconda parte della Costituzione, dimostrando di saper pensare al futuro del Paese.
A proposito di opposizione di centro, Pier Ferdinando Casini ha lanciato la proposta di un “governo tecnico”, di “salute pubblica”, una scelta a suo dire inevitabile se si vuole raggiungere l’obiettivo delle riforme. Lei cosa ne pensa?
Il dato politico importante in questa fase mi sembra il fatto che il leader dell’Udc, Casini, e il leader del Pd, Bersani, abbiano formalizzato la propria disponibilità a collaborare con la maggioranza in questo momento di grave crisi, con la consapevolezza che ci attendono anni molto difficili.
Ecco perché mi sembra prematuro parlare di scenari alternativi. Il mandato degli elettori è chiaro, ora bisogna governare. Detto questo, è pienamente legittimo che i protagonisti della politica immaginino soluzioni diverse da portare avanti se il quadro politico dovesse complicarsi.
Il richiamo alle riforme spesso rischia di rimanere generico. Quali di queste ritiene prioritarie e non più rimandabili?
Indicando le radici dell’albero a cui è appeso il nostro insoddisfacente presente si potrebbe davvero stilare una lista di riforme istituzionali non più differibili: quella del potere giudiziario e quelle del potere esecutivo e legislativo, senza poi dimenticare il nodo del rapporto tra Stato centrale e autonomie locali che tendiamo a sintetizzare nella magica parola “federalismo”. In ognuno di questi ambiti ci sono squilibri a cui porre rimedio e obiettivi da fissare con più accortezza.
A proposito di federalismo è di ieri il richiamo dei vescovi alla dimensione della solidarietà e al rischio di un involontario centralismo che potrebbe chiudere le porte alla sussidiarietà…
È la posizione tradizionale dell’Episcopato italiano, da non strumentalizzare, anche perché, come sempre accade, i vescovi propongono alla riflessione pubblica una visione che abbraccia diversi ambiti. In questo caso invitano a ripensare al federalismo, alla famiglia e a un nuovo modo di fare impresa.
Se parliamo di riforma federale, l’idea di un’Italia unita nella pluralità delle sue espressioni territoriali è stata ormai metabolizzata. Il problema, a questo punto, è coniugarla con la solidarietà. D’altra parte, ciò che sta accadendo in queste stesse ore a livello europeo conferma che nessuno può presumere di resistere e di salvarsi da solo. Nessuno può pensare, allo stesso modo, che la dimensione federale significhi l’assoluta irresponsabilità rispetto alle altre parti del Paese.
Quali provvedimenti auspica invece sulla giustizia, al primo posto tra le priorità che ha indicato precedentemente?
Sono favorevole alla separazione delle carriere dei magistrati e contrario all’assoggettamento dei pubblici ministeri al potere esecutivo.
Non è poi un mistero che per noi di Avvenire un aspetto indispensabile di qualunque riforma è la restituzione ai cittadini della possibilità di scegliere i propri parlamentari. Tra collegi uninominali (con candidati paracadutati dalle segreterie politiche) e liste bloccate (con eleggibili designati dai leader) non possiamo più scegliere deputati e senatori dal ‘94. Chi è già nel Palazzo sceglie chi è destinato a entrarci e gli elettori – ieri privati delle primarie di collegio, oggi privati dell’arma della preferenza – possono solo ratificare le scelte altrui votando un simbolo di partito e, di fatto, un candidato presidente del Consiglio.
Passando al Fisco, quali interventi sono necessari secondo lei?
Non mi illudo che questa riforma possa essere bipartisan, perché le visioni dei due schieramenti sono opposte, in questi anni l’abbiamo sperimentato con l’eloquenza che solo le tasse sanno avere. Mi aspetto però che entro la legislatura – anche se la crisi induce a passi cadenzati e prudenti – venga varato un sistema di tassazione che tenga finalmente conto del fondamentale ruolo sociale della famiglia e che lo valorizzi. Nel 2008 l’attuale maggioranza si era impegnata in tal senso con gli elettori. Se avrà la coerenza e il buon senso necessari a mantenere le promesse, nessuno un domani potrà rimettere le mani in tasca alle famiglie italiane per smontare un sistema finalmente equo.
Le sfide impegnative che ha appena elencato metteranno a dura prova una maggioranza che attraversa un momento delicato, dopo le recenti dimissioni di Claudio Scajola e i dissidi interni al Pdl. Sullo sfondo l’ipotesi più o meno remota di un voto anticipato…
Il rischio c’è, Silvio Berlusconi potrebbe lasciarsi tentare dalla voglia di fare chiarezza e rendere evidenti i reali rapporti di forza dentro l’attuale maggioranza. Le preoccupazioni e gli obiettivi che devono ispirare, in questa fase, le mosse di chi regge il timone del governo devono però essere ben altre.
La frattura tra i due cofondatori del Pdl non sembra però destinata a ricomporsi. Qual è il suo giudizio su questo dissidio e sulle conseguenze che potrà avere?
Questo scontro ci dice che forse il Pdl è diventato un partito vero. Dal conflitto – segnato in modo indelebile dalla personalità dei due contendenti – potrebbe emergere che un soggetto leaderistico come quello voluto e plasmato da Berlusconi può evolvere e arrivare a proporsi all’insegna di un’unità complessa, sul modello delle grandi forze popolari che hanno portato a maturità la democrazia italiana. Non diamo nulla per scontato però, nella Prima Repubblica e Mezzo ci siamo abituati a vedere che chi in un partito non è allineato presto abbandona la nave e ne crea uno nuovo.
Si riferisce a Rutelli?
Diciamo che è curioso vedere Fini e Rutelli, due dei quattro segretari che parteciparono in prima persona al varo di una pretesa stagione bipartitica, oggi protagonisti di fratture e scissioni che ribadiscono come il bipolarismo italiano non sia riducibile alla dialettica tra due sole forze monolitiche. Ma possiamo anche riferirci anche a certe miniscissioni dell’Udc, al frazionismo a sinistra del Pd, o ai teodem messi brutalmente alla porta del Pd.
Lo scontro tra gli schieramenti coinvolge ultimamente sempre più giornali e televisione. La polemica ha toni sempre più accesi e arriva a toccare aspetti personali dei protagonisti della vita politica. Qual è il suo giudizio al riguardo?
Continuo a credere in un’informazione che non sia la prosecuzione dell’azione politica con altri mezzi. Purtroppo però vedo una deriva in tal senso.
A mio parere la vigilanza anti-corruzione dovrebbe essere uno dei doveri dei giornali. Il mio se n’è occupato a più riprese cercando di fare il punto su un fenomeno in pesante evoluzione. Da garantista non pentito – penso che sia un segno strutturale di crisi della politica. Oggi si parla invece dei veri o presunti favoritismi riguardanti il “fratello di…” o la “suocera di…”, ma è evidente una diffusa disattenzione sul moltiplicarsi dei fenomeni di corruzione, sotto il segno di una trasversalità nient’affatto consolante.
Da ultimo, il suo giornale ha denunciato recentemente una sensibilità a corrente alternata dei media nei confronti di alcuni temi come la persecuzione dei cristiani nel mondo e i casi di pedofilia. Che spiegazione si è dato del fenomeno?
A volte sembra che alcuni colleghi, e non sono pochi, cavalchino certe onde mediatiche con un entusiasmo da surfisti, senza chiedersi cosa le abbia generate. Ed è ciò che sta accadendo sui casi di pedofilia che hanno visto protagonisti esponenti della Chiesa cattolica.
Il problema è serio, soprattutto dal punto di vista di un cattolico, che soffre persino più di altri – uso le parole di Benedetto XVI – per il terribile “tradimento” contro Dio e contro le vittime designate, i più piccoli di noi. Ma l’accanimento contro il Papa, la capziosità con cui si è tentato invano di far passare per “protettore” di pedofili proprio lui che già da cardinale parlò chiaro e s’impegnò concretamente contro la “sporcizia nella Chiesa” è incredibile. Lo dico da giornalista, colpito per la leggerezza con la quale si è concentrato il fuoco pesante sulla Chiesa, presentando come scoop anche casi di molti decenni fa. Quanto alle persecuzioni contro i cristiani, nel Nord del mondo c’è un silenzio di morte.
Per quale motivo secondo lei?
Fa male pensare che possa essere frutto di distrazione. Paradossalmente preferirei che fosse il frutto di una scelta complice. Sta di fatto che le stragi, le violenze d’ogni tipo che piagano le comunità cristiane autoctone in Asia e Africa, ma anche in America Latina, non trovano quasi mai spazio sulla grande stampa italiana e occidentale. Nel mondo politico italiano cresce invece una consapevolezza bipartisan del problema. Il nostro governo si è fatto promotore, infatti, di iniziative bilaterali in sede Ue e Onu. Per ora neanche questo riesce a smuovere l’attenzione dei media, l’importante però è che qualcosa cominci finalmente ad avvenire.
(Carlo Melato)