Il Governo ha annunciato nei giorni scorsi l’intenzione di intervenire sul capitolo degli assegni di invalidità (pensioni di invalidità e indennità di accompagnamento), per il quale lo Stato ha speso, nel 2009, 16 miliardi di euro, ovvero il 47% in più di quello che spendeva solo nel 2002. La crescita maggiore si è avuta tra le indennità di accompagnamento, riconosciute senza distinzioni di reddito a tutti gli invalidi incapaci di svolgere in autonomia le più elementari attività quotidiane, come mangiare, vestirsi, lavarsi, camminare. L’assenza di criteri di selezione reddituale ha fatto sì che la spesa per questo tipo di indennità lievitasse in pochi anni, arrivando lo scorso anno a circa 12 miliardi complessivi. Più contenuta è stata invece la crescita delle pensioni di invalidità, la cui diffusione è aumentata di poco più del 10% negli ultimi otto anni.
Il campanello di allarme che ha fatto scattare i controlli è arrivato, come accade troppo spesso in Italia, dall’eccessiva differenziazione territoriale delle prestazioni effettivamente erogate. La presenza nelle regioni del Sud di quasi la metà degli invalidi non poteva passare inosservata. Si è finalmente scoperto che, ad esempio, un siciliano ogni 51 è invalido, mentre in Lombardia il rapporto sale fino a 1 ogni 104 abitanti. Il che significa che alcune regioni hanno utilizzato l’invalidità in modo virtuoso, altre in modo fin troppo disinvolto: solo nel 2009 sono così state revocate il 29% delle invalidità della Basilicata e il 25% della Campania. E il fatto che le revoche in Sicilia siano state solo il 16% fa pensare a un lavoro ancora in buona parte da svolgere.
Ci sono molti motivi che hanno creato le premesse a questa situazione oggettivamente insostenibile. Se è vero che l’invecchiamento della popolazione ha fatto crescere la domanda di assistenza, è vero anche che la regolazione dell’accesso alle misure è stata segnata da una eccessiva vaghezza, che ha permesso una straordinaria discrezionalità. Ma il vero nodo è come sempre di sistema.
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L’accesso a queste misure è stato infatti negli ultimi anni governato dalle Regioni (le domande andavano infatti avanzate passando dalle Asl territoriali), ma il pagamento è rimasto in capo all’Inps, a cui sono stati demandati solo i controlli. Si è dunque creato un sistema di accertamento, verifica e controllo a più livelli, senza però che fossero inseriti principi di reale responsabilizzazione per le Regioni. Il risultato è quello che abbiamo descritto.
Come uscire allora da questo cul de sac? Nel breve la risposta dello Stato non può che essere (come in effetti è) quella da un lato di rimettere al centro l’Inps, oggi nuovamente coinvolto anche nella fase di accertamento dei requisiti, e dall’altro quella (assai ragionevole) di cominciare a limitare l’accesso alle indennità di accompagnamento su base reddituale.
Per il futuro, grazie all’avvento del federalismo fiscale, la soluzione più efficiente potrebbe essere invece diversa: trasferire integralmente alle Regioni l’intero procedimento, compreso il pagamento. Introducendo però, similmente a quanto si sta discutendo anche per la sanità, elementi di verifica e contenimento della spesa in base a parametri nazionali: non potrà ad esempio essere tollerabile un’eccessiva differenza nella distribuzione degli assegni in rapporto alla popolazione residente.
Spostando la misura alle Regioni, costituzionalmente titolari in via esclusiva delle competenze in tema di assistenza, si potrà per altro provare a sanare il vero limite degli assegni di invalidità: quello di essere pensati come misura standard, il cui valore monetario è identico (rispettivamente 257 euro e 480 euro mensili) in tutti i territori, indipendentemente dal costo della vita. Se è giusto limitarne l’accesso solo sotto certi livelli di reddito, ancora più giusto è provare a immaginare una misura mobile, differenziata tra le fasce di reddito e soprattutto commisurata al reale costo della vita presente nei differenti territori.