«Sono abbastanza scettico – dice al sussidiario Cesare Mirabelli, presidente emerito della Consulta – sul fatto che nuove regole incidano profondamente sulla realtà. Credo che occorrerebbe una più rigorosa applicazione delle regole esistenti». Sta facendo gli straordinari, la Commissione giustizia del Senato, per licenziare il ddl Alfano sulle intercettazioni. La stampa è sulle barricate, contro un provvedimento che vieta la pubblicazione degli atti giudiziari, in qualunque forma, fino al dibattimento in aula, tagliando le gambe alla libertà di informazione, mentre Sky ha detto di voler ricorrere alla Corte europea.



Ma Mirabelli mette in guardia contro l’overdose di regole. «Al nocciolo sta un problema “soggettivo”, quello della deontologia professionale di giornalisti e magistrati. Entrambi hanno mostrato di non essere sempre capaci di esercitare un’auto valutazione di quanto è opportuno fare e di quanto non lo è».

Dopo mesi di stop il discusso provvedimento sulle intercettazioni dovrebbe concludere l’esame in commissione nella notte di oggi. Qual è la sua opinione allo stato delle cose?



È innegabile che il ddl affronti un tema di grande rilievo, nel quale sono in gioco principi fondamentali ed esigenze che possono apparire in qualche modo contraddittorie. Lo si vede bene nel dibattito infuocato di questi giorni. Occorre trovare un punto di equilibrio, non semplice ma necessario.

Il ddl mette al centro il problema del contemperamento di interessi tra la tutela della privacy e il perseguimento di reati gravi, con strumenti efficaci. Perché è così difficile trovare questo punto di equilibrio?

Perché deve essere protetta la libertà e la segretezza delle comunicazioni, che è un bene costituzionale. Tuttavia la stessa Costituzione prevede che ci possano essere limitazioni, che sono disposte dall’autorità giudiziaria con garanzie che la legge deve prevedere. Che le intercettazioni costituiscano uno strumento non solo utile ma necessario per indagini complesse verso la criminalità organizzata, è evidente e non può essere messo in discussione. Il secondo problema – diverso dal primo – è quello della diffusione di intercettazioni che hanno riguardato fatti penalmente non rilevanti o persone che non erano coinvolte in fatti costituenti reato. Gli esempi non mancano.



Secondo lei c’è il rischio di una violazione di principi costituzionali, come quelli sanciti dall’articolo 15 (libertà e segretezza della corrispondenza) o dall’articolo 21 (libertà di stampa)?

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Il 15 va protetto e giustamente, il 21 va anch’esso protetto. Diciamo che c’è stato in passato, ripeto, qualche abuso sia nell’intercettazione, sia nella diffusione di notizie su intercettazioni relative a persone che nulla avevano a che fare con procedimenti penali. A volte poi vengono diffusi atti riservati nell’ambito delle indagini preliminari e anche questo è un elemento che va in qualche modo affrontato e risolto. Però attenzione: non è che vietando drasticamente o limitando fortemente le intercettazioni, anche quando sono utili, o sanzionando la stampa, si ha il risultato che si vorrebbe avere.

 

Ma allora, professore, un equilibrio ragionevole dove sta?

 

Esso è rimesso piuttosto a un corretto uso delle intercettazioni e a una non diffusione di informazioni che sono ancora coperte dalla riservatezza nell’ambito delle indagini preliminari. A questo bisogna aggiungere a volte anche la non professionalità o il cattivo costume di inserire, in provvedimenti giudiziari, interi testi di intercettazioni ai quali si potrebbe solo far tranquillamente riferimento senza una ripetizione per esteso.

 

Il lodo Buongiorno, che prevedeva la pubblicazione del contenuto degli atti giudiziari durante le indagini preliminari, invece di attendere l’apertura del dibattimento come prevede invece il ddl Alfano, poteva essere una buona via di mezzo?

 

Veniva incontro, senza risolverlo, al problema della libertà di informazione. Ma al nocciolo sta un problema «soggettivo»: quello della deontologia professionale di giornalisti e magistrati. Entrambi hanno mostrato di non essere sempre capaci di esercitare un’auto valutazione di quanto è opportuno fare e di quanto non lo è.

 

Il clima avvelenato del dibattito tra politica e magistratura, anche a seguito delle inchieste in corso, rischia secondo lei di condizionare il provvedimento?

 

Non parlerei di «clima avvelenato», piuttosto di forme di contrasto, anche acceso, che ci sono anche all’estero tra giurisdizione e altri poteri. È vero, non così come in Italia. Quel che servirebbe davvero al nostro paese è una maggiore dose di serenità complessiva e un approfondimento dei problemi senza una visione pregiudiziale, da parte di tutte le parti coinvolte.

 

Sulla stampa c’è stata una levata di scudi generale. Sul Corriere, Ostellino ha scritto che deve essere tutelato innanzitutto il diritto individuale a non essere esposto alla gogna mediatica; De Bortoli gli ha risposto che il ddl evoca metodi da stato totalitario…

 

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Non userei termini così forti. Ci sono aspetti che possono avere una curvatura in contrasto con la Costituzione. Speriamo che il Parlamento sia saggio, e poi non dimentichiamo che un organo di garanzia c’è ed è la Corte costituzionale. Direi comunque che l’Italia è una democrazia forte.

 

Vede il rischio di un ricorso alla Corte?

 

Non all’orizzonte, ma non mi sentirei di escluderlo. Non sarebbe la prima volta che certe leggi, anche poco dopo la loro adozione, vengono sottoposte al vaglio di legittimità costituzionale. Non è necessario essere profeti per immaginare che può accadere anche in questo caso.

 

In un quadro che contempla già certi strumenti, come l’udienza stralcio, siamo sicuri che nuove iniziative legislative finalizzate ad introdurre nuove regole bastino a sopperire all’esigenza di maggiore tutela della libertà individuale?

 

Sono abbastanza scettico sul fatto che nuove regole incidano profondamente sulla realtà. Credo che occorrerebbe una più rigorosa applicazione delle regole esistenti, a cominciare dalle intercettazioni che vengono effettuate, dalla non diffusione nel corso delle indagini preliminari, dal non trasfondere il contenuto in provvedimenti in modo da renderle pubbliche nel loro contenuto testuale, mentre la motivazione dei provvedimenti deve fare riferimento agli atti e non riportare gli atti nel provvedimento. Da parte della stampa ci vorrebbe quel necessario autocontrollo che sta nel non pubblicare informazioni che in ipotesi ledano la riservatezza dei cittadini, pubblicando soltanto quelle che hanno un interesse pubblico.

 

… verrebbe da pensare che il problema sia anche di chi – a monte della stampa – permette la fuga di documenti e informazioni, o no?

 

Non c’è dubbio. Da quello che sembra, anche se non posso esprimere nessuna valutazione di merito su questo, sono circolati documenti che non sono neppure ancora giunti al tavolo della magistratura.

 

Un eventuale provvedimento della Corte europea quali effetti avrebbe sul nostro ordinamento?

 

Il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo è successivo a tutti i ricorsi interni, perché si attiva solo quando sono esaurite le giurisdizioni interne. Perciò nel tempo non è certamente prossimo. La Corte europea si troverebbe a valutare eventualmente se si tratta di disposizioni che possono essere in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ma ancor prima c’è la solida verifica che può esser fatta dalla Corte costituzionale.

 

(Federico Ferraù)