Nella notte la Commissione giustizia del Senato doveva licenziare una versione definitiva del controverso ddl intercettazioni. Fin dal pomeriggio invece è cominciato il dietrofront del ministro Alfano: «Il testo della Camera – ha detto il Guardasigilli – ha rappresentato un compromesso alto tra tre principi costituzionali, privacy, diritto di cronaca e alle indagini. Nel passaggio tra commissione e aula valuteremo se è opportuno tornare a quel testo su alcune questioni». Il testo dunque resterà aperto. «Vogliamo evitare gli abusi delle intercettazioni» – ha detto Gasparri nella notte – «ma garantire il diritto di cronaca».



In tarda serata, quando la trattativa era ancora aperta, ilsussidiario.net ha sentito l’opinione di Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale.

«Non entro nella diatriba politica  – dice Onida – e mi limito alle considerazioni giuridiche. A me pare che sulle intercettazioni il problema sia chiaro. Da un lato la libertà e la segretezza della corrispondenza sono garantite dall’articolo 15 della Costituzione, il che vuol dire che  devono esserci delle garanzie precise per poter effettuare gli ascolti. Dall’altro c’è il diritto-dovere degli organi dell’accusa di condurre le  indagini per l’accertamento dei reati. Infine, ultimo capitolo, c’è il diritto-dovere di informare e di esser informati. Sono tutti diritti costituzionalmente garantiti».



Eppure, trovare un bilanciamento ha fatto sudare sette camicie alla Commissione giustizia del Senato.

Bisogna distinguere bene le cose. Una cosa è la disciplina delle intercettazioni, con le garanzie previste dall’articolo 15 della Costituzione, altro è la pubblicazione. Sul primo punto l’articolo 15 dice che la limitazione di libertà e segretezza può avvenire soltanto nel rispetto delle garanzie previste dalla legge. Ma il nostro Codice già prevede una serie di garanzie. Io non vedo, francamente, l’esigenza di cambiare le cose.

La maggioranza dice che ci sono stati degli eccessi nell’uso delle intercettazioni.



Si tratta però di appurarli in concreto e di studiare eventuali rimedi, non di paralizzare a priori l’impiego dello strumento. Questo va valutato non in astratto – fare tante intercettazioni o farne poche – ma in concreto. È vero che ad una limitazione di una libertà prevista dalla Costituzione non si può ricorrere a cuor leggero, e proprio per questo la legge prevede le garanzie fondamentali, dicendo quando si può procedere all’intercettazione e chi deve autorizzarla, cioè il giudice. Restringere l’elenco dei reati per i quali si prevede la possibilità di intercettare, o aggravare ulteriormente i presupposti per procedere all’intercettazione, mi sembra una risposta sbagliata.

Perché secondo lei?

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Ma per il motivo che ho detto un attimo fa: la necessità dell’intercettazione va valutata non in astratto, in relazione alla tipologia di reato, ma in concreto, in relazione al tipo di indagine e alle emergenze di fatto. Per quanto riguarda i presupposti, quello che dice il Codice mi pare che sia sufficiente. Pretendere indizi di colpevolezza nella persona che viene intercettata non mi sembra opportuno perché è l’intercettazione stessa che serve per la ricerca di indizi e di prove, cioè per accertare la fondatezza di una notitia criminis.

 

E sul punto dell’autorizzazione?

 

Per quanto riguarda i controlli, oggi sono compito del Gip. Di per sé rendere più rigoroso il controllo giudiziale potrebbe essere anche opportuno, perché si tocca qui una garanzia fondamentale prevista dall’articolo 15. Però l’idea di far autorizzare tutte le intercettazioni dal tribunale collegiale del capoluogo di distretto mi pare assurda: comporterebbe complicazioni e appesantimenti enormi.

 

Lei cosa proporrebbe?

 

Un organo collegiale in sede locale potrebbe avere un senso, ma potrebbero esserci anche in questo caso controindicazioni organizzative. Semmai potrebbe giustificarsi un controllo del capo della procura sulle proposte, per evitare iniziative individuali, non giustificate, dei singoli sostituti. Ma non mi pare che il progetto vada in questa direzione.

 

Se il testo rimanesse così come è ora, vede rischi di incostituzionalità?

 

Sì, soprattutto per quanto riguarda i limiti alla pubblicazione di atti e notizie. A loro volta le restrizioni che si vorrebbero introdurre al possibile impiego delle intercettazioni potrebbero essere in contrasto con l’articolo 112 della Costituzione, anche se a questo riguardo il rischio di incostituzionalità è meno evidente. Sulla pubblicazione delle notizie, invece, i principi sono molto chiari. Le notizie coperte da segreto non vanno pubblicate ed è giusto punire la violazione del segreto, ma quando si tratta di atti non segreti o non più segreti, la pubblicazione non si può impedire.

 

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Quanto alla legittimità della pubblicazione di notizie che ledono la reputazione di persone, valgono i consueti  principi di veridicità, rilevanza pubblica e continenza: i confini sono stati tracciati dalla giurisprudenza da molto tempo. No, non credo che sia conforme a Costituzione vietare la pubblicazione di atti non coperti da segreto relativi a indagini in corso fino a quando non si giunga al processo.

 

La legge votata dalla Camera nell’ultima legislatura prevedeva che il pm fosse responsabile di quello che può uscire o non uscire dalla sua procura. Poi come sappiamo non se n’è fatto più nulla.

 

Sì, può essere fatto carico al pm di evitare fughe di notizie coperte dal segreto. Ma quando la notizia non è coperta da segreto non si può impedire di pubblicarla.

 

Il problema che sta al nocciolo del ddl è quello del contemperamento di interessi tra la tutela della privacy e il perseguimento di reati gravi. Perché è così difficile trovare un equilibrio?

 

No, attenzione, non è questo il bilanciamento da operare. Da un lato c’è sì l’interesse al perseguimento dei reati, ma dall’altro c’è il rispetto del diritto alla libertà delle comunicazioni. Il tema della privacy va visto invece in rapporto al  diritto di informazione, cioè di informare e di essere informati. E quest’ultimo non può essere cancellato in nome di un’esigenza di privacy. La mia opinione è che i criteri di quest’ultimo bilanciamento la giurisprudenza li abbia indicati da tempo. Non dimentichiamo la differenza tra un semplice gossip e una notizia di rilevanza pubblica: il primo può tradursi in diffamazione, punibile, la seconda è di pubblico interesse e non può vietarsene la pubblicazione. 

 

Secondo lei questo ddl è condizionato dal perenne scontro tra politica e magistratura?

 

Sono anni che viviamo in un clima di contrapposizione pregiudiziale tra politica e giustizia e certamente anche in questo caso risentiamo degli effetti di questo conflitto. Inoltre gli attori sono tre: politica, magistratura, ma anche i media. Ciascuno dovrebbe fare bene il proprio mestiere: la politica dovrebbe fissare nelle leggi un corretto bilanciamento fra i diritti senza sacrificarne nessuno; la magistratura dovrebbe correttamente applicarlo in concreto; i mezzi di comunicazione dovrebbero cercare le notizie vere e di rilevanza pubblica, e correttamente informare i cittadini.

 

(Federico Ferraù)