Da oggi il ddl intercettazioni è al vaglio del Senato, dopo una settimana segnata dalla polemica tra gli organi di informazione, tutti schierati contro quella che hanno chiamato legge-bavaglio, i magistrati a difendere la propria indipendenza, il ministro Alfano a ribadire di voler tutelare la giustizia e la privacy degli italiani dall’uso indiscriminato delle intercettazioni telefoniche. Dopo lunedì scorso però le posizioni nel governo si sono ammorbidite e lo stesso ministro aveva dichiarato di ritenere buona la vecchia ipotesi di ddl, che comprendeva la possibilità di far conoscere le intercettazioni per riassunto. Al di dà di quello che potrà essere l’assetto finale del dispositivo, il sussidiario ne ha parlato con il filosofo Pietro Barcellona, già membro laico del Csm.
«In questo paese – dice Barcellona – davvero non è più possibile discutere, perché chi esprime un’opinione deve subito arruolarsi o da una parte o dall’altra».
Cosa la fa sentire a disagio, professore?
Siamo immersi in un clima di manicheismo estremista che sta diventando sempre di più una forma di pensiero unico, e che rappresenta una patologia grave della vita democratica. Personalmente non condivido questa battaglia così forsennata contro il rischio del bavaglio e a favore della libertà assoluta di intercettare chiunque.
Neanche se è l’unico strumento per scoprire reati gravi?
Tutti i reati devono venire scoperti e occorre dotarsi degli strumenti per farlo. Ma guardiamo la realtà dei fatti. Veniamo da un’esperienza oramai lunghissima di intercettazioni realizzate da centri di potere sui quali ancora non s’è fatta chiarezza. Persone come Giuliano Tavaroli e Gioacchino Genchi – e molti altri prima di loro – hanno dedicato tempo e risorse ad “auscultare” la vita democratica, costruendo non accertamenti della verità, ma dossier ricattatori che sono serviti semplicemente a destabilizzare il paese.
Intercettiamo o non intercettiamo?
Penso che il tema delle intercettazioni non possa più essere visto soltanto sotto il profilo della ricerca della verità sui nemici di mafia, sui crimini più gravi e su tutto quanto rientra sotto il codice penale. Le intercettazioni vanno ormai situate nel contesto generale della nostra vita pubblica. È vero, hanno dato qualche risultato molto importante in materia di reati mafiosi, ma nell’80 per cento dei casi il loro uso è stato assolutamente abnorme ed è servito a costruire, in sinergia col sistema mediatico, processi più o meno fantasiosi senza nessun vero riscontro.
Lei, insomma, dà il primato alla privatezza.
Ecco, vede la falsa contrapposizione? La privatezza è un grande bene, ma il vero tema è: che cosa serve a questo paese per avere accesso alla verità dei fatti? Il problema della verità assorbe sia il problema della tutela della libertà di stampa, sia la tutela del cittadino privato che pretende giustamente riservatezza. L’uso indiscriminato delle intercettazioni invece ha portato ad una manipolazione continua della verità.
Per esempio?
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Penso a Ottaviano Del Turco. Si è messa su una scena mediatica nella quale Del Turco, sommerso da una serie di accuse che venivano in gran parte da intercettazioni e da dichiarazioni rese più o meno liberamente da pentiti, appariva come uno dei massimi criminali della nostra vita pubblica.
Parliamo della stampa. I media, da posizioni pro o contro il governo, hanno parlato di legge-bavaglio.
Io non credo che si debba mettere il bavaglio alla stampa, che deve essere libera, ma non si può neppure fare un giornalismo che non cita mai le fonti e in cui tutto si confonde.
Si spieghi meglio.
Se io leggo per esempio gli articoli riguardanti la «cricca» di Balducci e Anemone, non riesco più a distinguere tra l’estratto di un’intercettazione, la dichiarazione resa al magistrato da chi è stato di volta in volta interrogato, la ricostruzione che ne fa il giornalista, e le dichiarazioni circolanti in certi ambienti. Sono quattro piani che si intrecciano e che vanno a formare un tutto unico in cui i fatti sfumano nelle congetture o nelle ricostruzioni interessate. Ricavo la convinzione che Balducci e Anemone hanno probabilmente commesso certi fatti, ma nessuna delle cose riportate contiene un minimo di indicazione per verificare la veridicità delle cose dette.
Lei ha parlato di «manipolazione della verità» indotta dall’uso distorto delle intercettazioni. Non le pare eccessivo?
Qui non mi interessa la verità con la V maiuscola, ma la verità pubblica. L’ultimo libro di Priore e Fasanella dimostra che questo paese, fino al delitto Moro, è stato oggetto di destabilizzazione organizzata da parte di poteri occulti. Anziché occuparsi di come si può affrontare il tema della verità dei fatti che riguardano la vita collettiva, siamo chiamati a scegliere con chi stare: ma è una falsa alternativa, perché l’intercettatore è sempre un sant’uomo, mentre l’intercettato è sempre un reprobo. Su questa strada non ci sto, perché non aiuta nessuno.
Quindi secondo lei non è né minata l’indipendenza della magistratura né è a rischio lo stato di diritto.
Non credo che dal ddl verrà una buona legge, perché ogni prodotto legislativo dipende da come lavorano maggioranza e opposizione. È un tema troppo rilevante per essere affrontato da Berlusconi nell’interesse dei cittadini, al tempo stesso l’opposizione ha il dovere di partecipare alla stesura di un testo di legge serio, perché il problema è reale e non lo ha inventato Berlusconi. La nostra storia non può essere condizionata dal ruolo che possono avere dei centri di raccolta di informazioni illegali.
Ma poiché una mediazione la si deve trovare, da quando Alfano si è mostrato più morbido pare che una delle ipotesi più probabili sia quella di dare notizia delle intercettazioni almeno per riassunto. È una via di mezzo accettabile?
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Sì, potrebbe essere una buona mediazione. Ma non voglio entrare nel merito della legge. Certo è che non possiamo rimanere in una situazione di guerra civile, tra chi pensa che la democrazia è finita e chi pensa che invece ce n’è troppa. Ogni volta siamo puntualmente inchiodati dallo scontro tra Berlusconi e i giustizialisti e questo è un disastro per tutti.
Come si fa a «collocarsi nell’ottica dell’interesse collettivo alla trasparenza e alla verità», come lei ha scritto di recente?
Ci vorrebbe una riforma politica, giuridica e morale. Temo che nessuna di queste, da sola, basterebbe a cambiare la mentalità della gente. Se invece ognuno pensa di poter essere giudice di tutto, come accade ora, ogni riforma sarà inutile. Chi fa il magistrato faccia il magistrato, chi è giornalista faccia il giornalista.
Onida su questo giornale ha detto che il diritto di informazione, cioè di informare e di essere informati, non può essere cancellato in nome di un’esigenza di privacy. Che ne pensa?
Stimo Onida, ma la sua risposta risente dell’impostazione che «frantuma» la complessità del problema. Oggi la comunicazione non è più quella di mezzo secolo fa. Se un giornale diffonde la notizia che sta per essere arrestata una persona perché le viene contestato un reato, questa persona nell’opinione pubblica viene arrestata per aver commesso quel reato. Questa è comunicazione? È libertà di informazione?
Che cos’è la libertà di informazione, oltre ad essere un diritto garantito dalla Costituzione?
È quello che dicevo all’inizio: il fatto che noi cittadini abbiamo diritto di conoscere la verità dei fatti su cui si basano le grandi decisioni. È il primato della verità dei fatti sulle opinioni personali, che deve essere posto come premessa di ogni ragionamento sull’informazione. Nessun conflitto puramente soggettivo tra uno che deve accusare e un altro che si deve difendere produrrà mai alcuna verità stabile.
Siamo realmente sicuri che l’introduzione di nuove regole, oltre quelle che già ci sono, porti realmente ad una soluzione dei problemi?
Non lo so. La cosa che considero rilevante è che non ci possono essere fonti occulte e che chi dà notizie deve sempre poter dire di quale fonte si è servito. Ma soprattutto, sono contro l’idea – che qualcuno vuol far passare a tutti i costi – che in questo momento ci sia il rischio di un grande bavaglio che cade sulla stampa. Mi pare assolutamente infondata.
(Federico Ferraù)