Che succede dalle parti di Palazzo Chigi? La domanda, come si suol dire, sorge spontanea, esaminando i tanti, troppi “stop and go” che stanno caratterizzando il varo di questa manovra da 27 (?) miliardi.
Guardiamo i fatti: martedì viene approvato un testo dal Consiglio dei ministri, ma per avere la consueta conferenza stampa del governo – necessaria, per spiegare un atto di una tale rilevanza politica e impatto sull’opinione pubblica – bisognerà aspettare il giorno successivo. Quando il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi si presenta con un’insolita dichiarazione scritta, come a sancire ulteriormente la delicatezza del momento, ma forse anche per smentire, con un documento congiunto, le tante indiscrezioni sugli attriti con Giulio Tremonti.
Le strette di mano fra i due e gli occhiolini d’intesa davanti alle telecamere non sono però bastati a fugare le voci e le ironie e sulla reale paternità dell’atto. Né il susseguirsi degli accadimenti agevolavano l’operazione. I 22 capitoli di cui si era parlato dopo la riunione del governo sono poi diventati 54, le pagine sono più o meno raddoppiate, ora sono 146.
Certo, un atto così importante deve vedere il concorso di molti attori istituzionali, gli aggiustamenti sono obbligati. Purché i passaggi siano chiari, potendosi documentare una sorta di tracciabilità, per ogni cambiamento, con relative responsabilità. Capita invece che le Province abolite martedì sotto 220mila abitanti (tranne quelle di frontiera, qui la paternità della Lega ha un marchio doc) siano poi state ignorate nella conferenza stampa per essere del tutto escluse nel testo definitivo.
Già, il testo definitivo. Quale? Ne compare uno sul sito del governo, ma l’apparizione dura poche ore. Tremonti già mercoledì aveva esibito davanti alle telecamere un fascicolo corposo, come a dire: “Habemus manovram”. Ma venerdì sera un imbarazzatissimo Berlusconi si reca al Quirinale a mani vuote. Un’ora di colloquio con Napolitano se ne va quindi a parlare di com’è andata la visita del Capo dello Stato negli Usa, delle difficoltà a nominare il successore di Scajola, per il rifiuto della Marcegaglia (nel precedente incontro il Cavaliere aveva infatti assicurato che l’interim sarebbe stato breve).
Quanto alla manovra, invece, Berlusconi allargava le braccia: «Quella definitiva non l’ho vista neanche io», diceva sconsolato a Napolitano, con chiaro riferimento alla battuta del giorno precedente, quando aveva detto, citando Mussolini, che «il potere è tutto in mano ai gerarchi».
Venerdì sera, quindi, dopo l’imbarazzante incontro con Napolitano Berlusconi si mette al telefono per capire dove sia finito questo maledetto testo-fisarmonica. Tremonti bersagliato da tutti i retroscena per questi disguidi decide che, come al solito, i maligni sono i giornalisti e augura a «velinisti e velenisti» (si vede che è anche uno scrittore di successo, il nostro ministro dell’Economia) un tranquillo weekend del 2 giugno. Il testo, si scansa Tremonti, era alla Ragioneria dello Stato che doveva apporre il suo bollino, questa la spiegazione.
Ma quale weekend, per i giornalisti c’è da lavorare senza sosta. Sabato mattina alle 10 Berlusconi dice che il testo, di cui non sapeva la sorte la sera prima, è già all’esame del Quirinale. E aggiunge che lo firmerà successivamente, dopo i rilievi. Ma – contrordine – un comunicato ufficiale di Palazzo Chigi fa sapere, a tarda mattinata, che il testo arrivato a Napolitano era già sarrivato firmato. Non l’aveva approvato già il Consiglio dei ministri, d’altronde? Che confusione…
Ma se l’irritazione di Berlusconi per una manovra che viene manovrata poco da lui e molto dal ministro traspare solo dalle indiscrezioni destinate a essere puntualmente smentite (anche se i fatti qualche dubbio, come si vede, lo lasciano) tocca a Sandro Bondi polemizzare a viso aperto, uscendo totalmente dai chiché cui ci ha abituati, contro Tremonti, accusato senza mezzi termini di aver usato la scure sulla Cultura, senza minimamente coinvolgere il ministro competente.
Ora apprendiamo che nella manovra sono già state apportate, nella giornata festiva, le modifiche auspicate dal Quirinale, e quella di domenica sera sarebbe quindi la versione definitiva, quella che insomma andrà veramente al vaglio del Parlamento. Dove, va detto, ci sono già i fucili spianati, l’opposizione, tutta, si dice sospinta verso il no anche da tutti questi tira e molla.
Cosicché gli unici che difendono in pieno questa manovra sono quelli della Lega, nonostante i tagli maggiori penalizzino proprio gli enti locali. E questo non fa altro che rafforzare l’idea di un esecutivo in cui cresce, sull’effetto della crisi, il peso di un ministro che pesante già era, come Tremonti.
Il Carroccio si sente garantito da questa situazione, a prescindere: la vicenda del taglio delle Province tagliate la dice lunga su come il partito di Bossi possa dormire su due guanciali finché i tempi, anche sul federalismo, li detta Tremonti. Ma ora entrano in scena altri attori, il mediatore Gianni Letta e l’emendatore Gianfranco Fini, su cui punteranno le loro fiches tutti quelli che a vario titolo vogliono cambiare il testo e ridurre lo strapotere tremontiano.
E Berlusconi? Si sa che il Cavaliere da questi bracci di ferro fra alleati ne è uscito sempre rafforzato, più satelliti girano e più il Sole rimane unico e insostituibile. Ma stavolta è diverso: la fase di sacrifici che si apre lo costringe a un ruolo in cui fatica ad esprimersi, e anche la scena di Confindustria che gli nega il “prestito” della Marcegaglia al governo proprio non è un bel segnale, per lui.
Il Cavaliere ora pensa a ricompattare il Pdl, riapre anche a Fini e frena sul federalismo concedendo, su questo, il varo di quella Commissione che il presidente della Camera voleva, per decidere la linea del Pdl. E si sa che le commissioni, in Italia, sono il modo migliore per non concludere un bel niente. Se così fosse Fini non si vestirebbe a lutto, i neo governatori Polverini, Caldoro e Scopelliti, sommersi dai debiti, neppure.
Ma Bossi fiuta l’aria e rafforza il suo asse con Tremonti, pronto a dichiarare guerra se gli faranno scherzi, sul federalismo. Ed è su questo che Berlusconi sarà chiamato a fare la sua difficilissima scelta di campo di metà legislatura.