Da ieri, e grazie agli sfoghi incontrollati del Presidente del Consiglio, la Costituzione torna prepotentemente alla ribalta: le sue regole sono state definite come “un inferno”, i suoi contenuti – a partire dall’art. 41 sulla libertà di impresa – sono visti come l’ennesimo ostacolo alla ripresa e, quindi, come un sostanziale aggravio della crisi economica.



E certo non è facile governare in questo momento il Paese: conflittualità politica dentro e fuori la coalizione di governo, a livello statale e a livello regionale, tagli non sempre coerenti con una reale prospettiva di rinascita economica, il solito refrain sulla magistratura comunista da un lato e i bavagli alla libertà di opinione dall’altro come quadro non incoraggiante per un dibattito serio sul come regolamentare le intercettazioni e il loro uso, regole sulla produzione normativa e sui rapporti governo-parlamento che, effettivamente, possono essere considerate inadeguate. Se non è un inferno, poco ci manca.



Ma la Costituzione quanto gioca in tutto questo? Tutti sono coscienti che il suo ruolo è, tutto sommato, limitato benché – forse – qualche cambiamento non guasterebbe, se non altro per dimostrare al popolo italiano la sensatezza della sua classe politica.

Oltre che a questo non banale scopo, qualche regola nuova gioverebbe a migliorare il funzionamento delle nostre istituzioni. Gioverebbe prima di tutto ridurre il numero dei parlamentari. E chi non sarebbe d’accordo se non quei mille che in Parlamento siedono e che essi stessi, a maggioranza qualificata, dovrebbero votare la riforma?  Non facciamoci illusioni.



Gioverebbe ripensare al ruolo di Camera e Senato che agiscono secondo le logiche del bicameralismo perfetto, che gioca sempre in due tempi e che è sotto critica perlomeno dagli anni ’60, quando almeno si pareggiò la durata delle due legislature con una modifica costituzionale.

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Non inutile sarebbe poi introdurre una corsia preferenziale per i progetti governativi e altre modifiche ai regolamenti parlamentari per snellire il procedimento legislativo, un procedimento così lungo che finisce per rendere la produzione legislativa frutto di mille compromessi e permeabile ai mille interessi presenti in Parlamento.

 

Oltre a ciò, bene sarebbe ripensare alla forma di governo: mutata la compagine dei partiti, e cambiato il sistema elettorale, un adeguamento delle norme costituzionali su formazione del governo, fiducia e attribuzioni del Presidente della Repubblica potrebbe dare più visibilità (e quindi più controllabilità) alle dinamiche della politica, a partire dalla scelta delle liste elettorali fino alle modalità di individuazione delle alte cariche dello Stato, quali ad esempio i giudici della Corte costituzionale.

 

Si eviti invece di parlare di modifica dell’art. 41 della Costituzione, sulla libertà di impresa, che non limita nulla, mentre per ridare fiato all’economica è assai più opportuno far passare la legge sullo Statuto delle imprese o altri provvedimenti sul lavoro, che incidano sulle logiche assistenzialistiche della cassa integrazione e consentano invece, tramite nuovi servizi al lavoro – come ad esempio il cosiddetto outplacement, cioè la ricollocazione dei dipendenti delle aziende in crisi o in ristrutturazione – di ridare dinamicità al mercato.

 

Insomma, se mutamenti costituzionali potrebbero essere utili al governo, una legislazione più compatta e coerente e una amministrazione più efficiente sono senz’altro utili ai cittadini. E sono loro che rischiano l’inferno: per questo, a loro, il Presidente del Consiglio non fa nessuna pena.