Quando Balzac scriveva che «Le diable est un souverain sans constitution» di sicuro non pensava a Berlusconi. E probabilmente neanche Berlusconi voleva citare Balzac quando ha dichiarato che governare con la Costituzione è un inferno. Semplicemente voleva manifestare la stessa insofferenza manifestata qualche giorno prima quando diceva di potere decidere solo se il cavallo dovesse andare a destra o a sinistra. E infatti deve essere frustrante per chi ha gestito una delle più grosse strutture imprenditoriali del paese trovarsi a fare i conti non con la gestione di un’azienda (di grandi dimensioni) ma di uno Stato (di medie dimensioni).



Ciò che ci si deve chiedere però è se davvero la risposta all’inferno sia la riforma della Costituzione. Fino a qualche anno fa era un luogo comune ripetere che in Italia non si poteva avere un governo e una maggioranza stabili perché la Costituzione non era adeguata ai tempi. Oggi, che un governo e una maggioranza stabili ci sono (e, guarda caso, senza modifiche alla Costituzione) si dice che la maggioranza non può governare per colpa della Costituzione, che non è adeguata ai tempi. Il che desta quantomeno il sospetto che qualcosa non torni e che la Costituzione – oltre a poter essere adoperata come un feticcio democratico – possa essere usata come un meraviglioso capro espiatorio.



Certo non c’è dubbio che qualche modifica procedimentale potrebbe giovare ai tempi di traduzione in legge delle iniziative del Governo e Lorenza Violini li ha elencati qui su queste pagine: eliminazione del bicameralismo perfetto, corsie preferenziali per le iniziative del governo, percorsi più trasparenti per le nomine etc. E’ tutto vero. E’ però lecito dubitare che, una volta realizzate queste riforme, si arrivi a quella situazione ideale per cui ciò che viene progettato in sede governativa diventi immediatamente legge dello Stato. E soprattutto che le leggi dello Stato possano incidere davvero sulle situazioni che vanno a disciplinare.



In realtà, dietro alla boutade sulla costituzione infernale sta un enorme problema che non si vuole affrontare da nessuno, né in Italia né in Europa, ed è il problema dovuto al fatto che le nostre raffigurazioni dello Stato e della attività di governo non sono più in grado di spiegare la realtà, perché i margini d’azione dello Stato sono drammaticamente mutati. Oggi gli Stati non controllano più ciò che avviene all’interno dei loro confini o, meglio, controllano soltanto ciò che gli riesce di controllare, con o senza corsie preferenziali per i progetti di legge del Governo.


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Che tutti gli Stati europei siano oggi impegnati in una drammatica riduzione della propria spesa pubblica – con tutte le conseguenze che ne vengono in termini di crescita, di occupazione e qualità dei servizi erogati – non dipende dalle rispettive costituzioni e non dipende nemmeno dalla volontà dei rispettivi governi, che sanno di essere destinati prima o poi a pagare in termini di consenso le scelte degli ultimi giorni e che avrebbero fatto di tutto per non approvare le misure che hanno approvato. Gordon Brown, ad esempio, ha già pagato. E che queste misure siano state prese non dipende neanche dal patto di stabilità che tutti i governi di Europa avrebbero voluto allentare, essendo stato pensato per una fase di crescita che si riteneva destinata a durare in eterno.

 

Dipende piuttosto dal fatto che le dinamiche economiche e finanziarie del liberismo mondiale sono del tutto incontrollabili dagli Stati e che gli Stati, dopo la celebrazione che in questi anni si è avuta del capitalismo transnazionale, possono solo reagire agli eventi. Semplificando molto, si può dire che gli Stati dipendono dai mercati perché dai mercati dipende il valore della loro moneta e quindi della loro capacità di spesa. Il che, per capirci, trasforma gli Stati sovrani in sovrani di carta (moneta). E se poi si pensa che i cittadini possono influire con il loro voto solo sugli stati e non sui movimenti del grande capitale transnazionale, si capisce che meno contano gli Stati, meno contano i cittadini che vivono all’interno di quegli Stati. Tanto è vero che i costi della crisi mondiale stiamo cominciando a pagarli tutti in tutta Europa; e che gli Stati ci hanno protetto per quello che potevano, con il risultato di indebitarsi fino al collo. Il che è stato prontamente registrato dagli operatori finanziari mondiali che ne hanno approfittato per far crollare il valore dell’euro.

E allora, se così stanno le cose, tuonare contro l’art. 41 perché non contiene una sola volta la parola mercato non è che cambi granchè della situazione. E dire che chi avvia una attività economica è soggetto a una quantità di controlli e di pratiche perché c’è l’art. 41 è semplicemente falso. Chi avvia una attività economica deve confrontarsi innanzi tutto con la scarsità di credito, perché le banche non sono felici di prestare soldi a chi inizia senza garanzie e in tempi di crisi. E in secondo luogo deve confrontarsi con una legislazione complessa e farraginosa, progettata in tempi di crescita economica, quando ci si poteva permettere qualche decimo di Pil in meno per tutelare esigenze sociali.

 

Sicché la strada non è quella di dire alle piccole e medie imprese “andate e moltiplicatevi” perché non c’è più l’art. 41. Il problema è un altro: ora che abbiamo capito tutti che le società europee non sono più destinate ad avere a che fare con recessioni che si lasciano governare, ma con vere e proprie crisi strutturali che mettono in dubbio la loro posizione nel mondo, ci si dovrebbe cominciare a chiedere se si è certi di potere sopportare i costi economici che vengono dalla tutela di queste esigenze. Questo sarà il vero tema politico dei prossimi anni la scelta sul quale spetterà ai governi europei e, in ultima battuta, ai cittadini.

 

  

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E’ questo che non si vuole dire chiaramente, così come non si vuole dire chiaramente che l’alternativa è il modello di produzione cinese in cui i prodotti costano quello che costano perchè da quelle parti di controlli e di diritti sociali non se ne parla neanche. Così come non si vuole dire chiaramente che la Cina fa “dumping” sociale nei confronti del resto del mondo, perché altrimenti le autorità cinesi si impermalosiscono e comunque qualcuno che compra sottocosto nel mondo lo si trova sempre.

Quando Tremonti veniva accusato di mercantilismo perché negli ultimi anni spingeva per l’introduzione a livello europeo di dazi sulla importazioni di merci cinesi, in fondo aveva in mente proprio questo: e cioè il fatto che è difficile competere con imprenditori che operano secondo logiche che, in Italia e in Europa, li porterebbero direttamente in galera.

 

E allora, in una situazione in cui il Governo ha le mani legate (come tutti gli altri Governi d’Europa) conviene dire che le difficoltà di crescita sono dovute a una Costituzione invecchiata che impone troppi controlli e non contiene la parola mercato. Continuando ad alimentare l’impressione che le costituzioni descrivano ancora la realtà in termini di sovranità statale e che modificata la Costituzione il mondo sarà migliore.

Siccome so che non è vero, sto cominciando a dubitare che anche Berlusconi si senta davvero all’inferno.