Può essere, ma ci credo poco, che siano stati i giornali a riferirne poco e male: e in questo caso mi scuso in partenza per le eventuali imprecisioni. Ma, da quel che ne ho letto, almeno alcune delle motivazioni con cui il tribunale del riesame di Firenze ha rigettato la richiesta di scarcerazione di Angelo Balducci e Fabio De Santis lasciano, a dir poco, perplessi.



Non mi riferisco, ovviamente, al pericolo di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato che, vale la pena di ricordarlo, costituiscono, assieme al rischio di fuga, gli unici elementi che, in casi come questo, legittimano la carcerazione preventiva, altrimenti detta, con definizione più asettica (e se vogliamo più ipocrita) custodia culturale: può essere, anzi, è altamente probabile che i magistrati fiorentini abbiano fondatissimi motivi per invocarli.



Parlo, piuttosto, di alcune valutazioni d’ordine diciamo così più generali che i giudici del tribunale del riesame, a quel che capisco, hanno inteso porre a base della loro decisione.
Ai due viene infatti rimproverato, in primo luogo, un “atteggiamento di totale chiusura nei confronti delle ipotesi accusatorie”. Significa che Balducci e De Santis debbono restare in galera (insisto: in stato di carcerazione preventiva) perché esercitano l’elementare diritto di non collaborare, e di difendersi dalle accuse come più gli aggrada, quindi anche non rispondendo, in tutto o in parte, alle domande dei magistrati?



Ma no, naturalmente. Questa (inquietante) interpretazione, scrivono i giudici, la suggeriscono “maliziosamente” gli avvocati difensori dei due. È di altro che si tratta. Del fatto, cioè, che ambedue gli imputati dimostrano, con questo comportamento, un’“evidente carenza di percezione della antigiuridicità del proprio comportamento”. In poche parole, non comprendono la gravità della loro situazione. Non perché siano personaggi superficiali, o ingenui, si capisce. Ma perché “la cricca”, nonostante tutto, è ancora forte: “Permane il sodalizio e la solidarietà tra gli indagati, a dispetto della carcerazione sofferta (corsivo mio), elementi che convincono che un sistema così oliato e potente non possa dirsi scardinato”.

 

Dunque, la carcerazione preventiva, ben prima che a evitare la fuga, l’inquinamento delle prove e la stessa reiterazione del reato, serve a rendere chi la patisce finalmente consapevole della propria colpevolezza, e a comportarsi di conseguenza. Se non lo fa, è segno che il sistema criminoso di cui (secondo l’accusa) fa parte è tuttora abbastanza solido da fargli sperare di poterne avere protezione e aiuto, e dunque dallo scoraggiarlo a rompere la sua rete di solidarietà. Non basta.

C’è un altro e più “sostanzioso” motivo per non concedere a Balducci e De Santis gli arresti domiciliari. È “il coinvolgimento, sia pure a vario titolo, di familiari e in particolare mogli, ben inserite nel sistema anche se con ruoli non penalmente rilevanti (il corsivo è sempre mio: se non sono penalmente rilevanti, a che titolo questi ruoli vengono chiamati in causa?). E tutto ciò ci dimostra l’esistenza di un sistema che non è solo pervasivo, ma costituisce “un vero e proprio stile di vita antigiuridico” (sic).

Personalmente fatico assai (è un eufemismo) a riconoscermi in questa concezione della giustizia e del diritto. E, anche se ci conto assai poco, vorrei, insistendo nell’eufemismo, che faticassero altrettanto, e facessero pubblicamente sentire questa loro fatica, molti miei concittadini.

 
 

Capisco bene che i Balducci e i De Santis non sono davvero personaggi che possano ispirare particolari sentimenti di solidarietà; e io, in ogni caso, nei loro confronti proprio non ne provo. Ma non è questo il punto: è dei diritti e delle garanzie di tutti, non della moralità di questo o di quello, che si parla, o si dovrebbe parlare.

Senza timore di passare per nemici dei magistrati o per amici dei corrotti, dei mafiosi, dei delinquenti. Naturalmente in un altro Paese. Perché in questo, a quanto pare, almeno da una ventina d’anni non si deve. E comunque non si può.