Continua il conflitto tra le Regioni e Tremonti sui tagli da mettere in manovra. Per un attimo si è parlato del rischio di un nuovo condono, subito smentito e rientrato. Il nuovo ministero per l’attuazione del federalismo, con delega ad Aldo Brancher, ha creato smarrimento perfino nel Pdl. Cosa sta accadendo nel governo? Giulio Sapelli, economista, misura la «temperatura» della maggioranza, a cominciare dal dibattito sul federalismo.
Pare che Tremonti sia disponibile a rimettere mano ai tagli in modo da premiare le regioni più virtuose. Ma è vero che la manovra metterebbe a rischio il federalismo?
In teoria sappiamo tutti che cos’è il federalismo ma in pratica non sappiamo ancora dove stia di casa. Non possono saperlo né le Regioni né il governo, almeno fino a che non avremo l’elaborazione dei costi standard, una comparazione esaustiva delle entrate fiscali e delle spese regione per regione, e infine l’entità del trasferimento solidale che si dovrà fare per alcuni anni alle Regioni che non potranno sostenere da sole l’autonomia, dati i costi standard e i limiti di spesa prefissati.
In altre parole, professore?
In altre parole, se mettiamo insieme i calcoli di Luca Ricolfi e lo schema teorico di Luca Antonini abbiamo già nei conti e nel modello che cosa sarà il federalismo. Ma non basta, perché serve una decisione politica: quella sul fondo di trasferimento. Se non si fa questo, la fatidica data del 30 giugno prevista come termine per i decreti attuativi sarà semplicemente un giorno come un altro.
È giusta la critica di chi dice, in primis i governatori, che la manovra è sbilanciata perché interviene quasi esclusivamente sugli enti locali?
No, mi spiace. Gli enti locali sono stati la più grande fonte di spesa in questi ultimi anni. E poi si parla di enti locali, ma occorre distinguere. Le Regioni non sono enti locali ma neo-stati centrali, parliamoci chiaro.
Perche neo-stati centrali?
Tutte le Regioni oggi sono piccoli stati territoriali. Col federalismo non avremo lo stato delle autonomie, ma lo stato regionale.
Lo spieghi al lettore.
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Lo stato delle autonomie è quello che ha al centro il comune come cuore dell’autonomia fiscale. Così auspicavano i primi che in questo paese hanno cominciato a parlare di federalismo fiscale: Giacomo Matteotti, Ivanoe Bonomi, Angelo Mauri. Noi al posto del comune abbiamo messo le Regioni. Una Regione ha sotto di sé, secondo il principio di sussidiarietà, altri enti intermedi, ma non è un ente sussidiario di per sé. L’unico ente locale di sussidiarietà orizzontale in Italia rimane il comune.
Ma allora che riforma stiamo facendo?
Un federalismo fiscale regionalmente accentrato, e non un federalismo fiscale fondato sulle autonomie locali che è un’altra cosa. Parlavamo però di tagli agli enti locali…
Stava dicendo che i «colpevoli» non sono i ministeri, ma quegli enti locali di cui i presidenti di Regione oggi hanno preso le difese a oltranza.
Si. La vera fonte di spesa sono gli enti locali e non i ministeri, che hanno invece fatto grandi risparmi. Chiunque parli con cognizione di causa sa bene che la spesa pubblica degli enti centrali è diminuita, mentre è aumentata esponenzialmente quella degli enti locali.
Sabato scorso il Pd ha presentato la sua contro-manovra, che prevede di tassare le rendite finanziarie ma senza toccare i Bot, di aumentare le imposte sulle transazioni speculative, di stendere un nuova «lenzuolata» di liberalizzazioni e altro ancora. Che ne pensa?
Se il Pd volesse davvero fare una cosa seria, guarderebbe i conservatori inglesi, che intendono introdurre una tassa sulle banche. Lo ha detto Cameron, seguendo quello che fanno Germania e Francia. Tassare le rendite finanziarie è pericoloso, perché con un debito pubblico come il nostro nessuno comprerebbe più i nostri Bot. Ma i conservatori inglesi e i democratici tedeschi sono molto più avveduti dei nostri ragazzi del Pd.
È polemico?
No. Mi limito a constatare che il Pd non può farlo, perché è il partito delle banche, che sono la sua constituency. Non parlo ovviamente delle banche cooperative, ma delle banche capitalistiche.
Parlando di misure a favore delle imprese, ieri lei su Repubblica si è detto favorevole ad una «free zone» proposta per Milano dal sindaco Moratti. A quali condizioni però?
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È una buonissima idea, a patto che non se ne parli solo per Milano ma anche per Monza e la Brianza. Trovo però difficile che l’Europa ci dia una zona franca perché la Ue la concede solo alle aree sottosviluppate. Ora, tutto si può sostenere di Milano meno che sia un territorio sottosviluppato. Anzi, è una delle zone più ricche al mondo, dove però l’1 per cento – e questo l’ho detto, ma Repubblica non l’ha scritto – possiede il 40 per cento della ricchezza.
Sul Corriere c’è stato un dibattito, innescato da Dario Di Vico, sul problema del «secondo welfare». Per Sacconi meno Stato e più società vuol dire anche più mercato. Invece Treu non è d’accordo: «la socialità deve entrare nell’economia come criterio informatore delle sue regole». Lei che ne pensa?
Mi guarderei bene dal far fare qualsiasi proposta di legge sul welfare al senatore Treu. È vero, sono pieno di pregiudizi, ma innanzitutto verso chi ha aperto la strada alla precarietà, all’insicurezza e all’impossibilità di fare famiglia per tanti giovani. Sacconi ha ragione, ma dimentica anche che il welfare societario, in grandi società avanzate come Inghilterra e Germania, vuol dire un reddito di cittadinanza o un sussidio di disoccupazione per tutti. Ma non complichiamoci la vita a cercare confini astratti tra stato e mercato: dove il privato – filantropico, no profit, cooperativo – ce la fa, lasciamolo fare. Dove non ce la fa, e penso al sud, intervenga il pubblico. Non ci sono alternative.
Ha in mente qualche buon esempio da imitare?
Penso che il modello ottimale sia quello che in questi anni, in Lombardia, è riuscito ad integrare privato e pubblico. Naturalmente dovendo prevedere un sostegno contro la disoccupazione, è difficile non pensare ad un intervento pubblico.
Torniamo alla manovra. 2500 emendamenti, 40 giorni di tempo per concludere tutto, Napolitano che auspica che a dettare le priorità sia la crisi economica, e non altro. Un suo giudizio politico?
Che dire. Dopo anni di dibattito tra illustri costituzionalisti in cui si è discusso di come portare in Parlamento le leggi finanziarie senza ridursi a vedere lo spettacolo dell’assalto alla diligenza, che si vada alle Camere senza una legge bloccata – «prendere o lasciare» – è stupefacente. Sono contrario ad una votazione sulla finanziaria che non sia blindata. La crisi batte ancora i pugni alla porta e si perdono 40 giorni per fare una manovra? È da irresponsabili. Che poi gli emendamenti vengano dal governo, vedi l’ultimo blitz sul condono, è semplicemente pazzesco.