Proponiamo l’articolo di Giorgio Vittadini pubblicato da Il Corriere della Sera sabato 26 giugno 2010 

Perché concezioni quali “più società meno stato” o welfare sussidiario sono diventate oggi di attualità, come mostra l’interessante dibattito che ha trovato spazio sulle pagine del Corriere? Un primo punto fermo appare l’esigenza di difendere quella tradizione europea che, a partire dalla centralità della persona umana, “unica e irripetibile”, ha costruito un sistema di welfare universalistico mirato all’offerta di un’ampia gamma di servizi pubblici disponibili per tutti i cittadini. Tenendo fermo l’obiettivo di non retrocedere da questa importante conquista civile, e avendo presenti le nuove esigenze di un mondo in rapido cambiamento, occorre far fronte alle due opposte concezioni di welfare presenti oggi.



In Italia, da più di due secoli, ha prevalso l’idea che un sistema di welfare universalistico potesse essere gestito solo da amministrazioni e aziende pubbliche, attraverso una forte programmazione dello Stato centrale. Tuttavia, negli ultimi decenni, a causa della crescente quantità e qualità dei bisogni della popolazione e per l’esplodere del debito pubblico degli Stati, tale concezione è andata in crisi, portando molti a ritenere che, anche nel welfare, debbano valere le regole di un mercato “selvaggio” guidato dalla sola logica del massimo profitto. E’ evidente che se questo sistema si affermasse, le società europee assumerebbero in pochi anni gli aspetti deteriori del mondo americano, con una inaccettabile e crescente contrapposizione tra ricchi e poveri.



A fronte di questa sterile contrapposizione tra logica pubblica e privata, è venuto il momento di sottolineare il valore del cosiddetto “welfare sussidiario”, quello cioè in cui trovano spazio i servizi delle realtà non profit, il cui ottimo aziendale consiste nel perseguimento di scopi sociali. I cittadini, in questi casi, sono titolari della libertà di scelta all’interno di una pluralità d’offerta governata dallo Stato (tramite meccanismi di accreditamento e valutazione che superino le asimmetrie informative) e finanziata redistribuendo le tasse (mediante voucher, doti, deduzioni e detrazioni fiscali, convenzioni etc..). In questo modo si otterrebbe il grande vantaggio della libertà di scelta degli utenti, tipica dei mercati, e quello della garanzia di servizi che rispondono ai bisogni elementari della popolazione.



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Un ulteriore valore aggiunto di questa concezione è il recupero di una concezione di persona non isolata, ma in relazione con altre persone, e, in quanto tale, non solo oggetto, ma soggetto del welfare. Fin dall’alto medioevo, e poi per merito del movimento cattolico, operaio, e di una concezione liberale e imprenditoriale attenta ai bisogni sociali, sono nati nei secoli scuole, università, ospedali, opere assistenziali, interventi a sostegno del lavoro, abitazioni popolari, interventi di protezione ambientale e artistica, perfino istituti bancari. Pur non aiutate da una legislazione che le ha discriminate, queste realtà di diritto privato, ma pubbliche per scopo, si sono fatte carico, in modo spesso più efficace ed efficiente di quelle statali, dei più disparati bisogni sociali.

Questo protagonismo sociale è la grande risorsa da valorizzare nell’attuale fase di transizione, come hanno capito ormai da tempo pensatori come Lester Salamon della Johns Hopkins (che parla di necessità di partenariato tra pubblico e privato) o Julian Le Grand della London School of Economics (che difende la libera scelta dell’utente nel welfare). Lo ha capito anche la Corte costituzionale italiana, qualche anno fa, quando ha definito lo scopo di pubblica utilità delle fondazioni bancarie. Lo ha capito anche la gran parte della popolazione che risponde entusiasticamente al 5 per mille. E lo hanno capito, infine, anche alcune Regioni che hanno riformato le loro legislazioni per permettere ai loro cittadini di scegliere tra i soggetti erogatori dei servizi di welfare, quelli più rispondenti ai propri bisogni.

E’ ora che anche a livello nazionale si attui una riforma che rimetta al centro del sistema sociale la persona, non solo come oggetto ma anche come soggetto del welfare. Ed è ora di ripensare alle categorie di merito e di parità che, concepite come lo sono adesso in maniera burocratica, rischiano di ottenere il massimo dell’ingiustizia.