Per quel che si era capito fino a una settimana fa sussidiarietà significava diminuire il peso dello Stato e delle sue articolazioni. Ora scopriamo che può significare anche creare un nuovo ministero. Ne abbiamo visto di vicende pasticciate, con un concorso assolutamente bipartisan nelle alterne vicende di quest’ultimo ventennio di storia repubblicana, ma questa della nomina a ministro di Aldo Brancher ha a buon diritto motivo di salire sul podio. La nota del Quirinale che stoppa per lui il ricorso al legittimo impedimento è sembrata cogliere tutti di sorpresa, ma a dire il vero di sorprendente c’è solo la sorpresa, se solo ci si fosse interrogati già prima sul ruolo svolto da Napolitano nel recepire, anzi nel subire, l’indicazione del nuovo ministro, giunto in tutta fretta a firmare al Quirinale la mattina di venerdì 18.
Come sempre, però, cerchiamo di far parlare i fatti, prima di avventurarci in valutazioni altrimenti affrettate. Come si ricorderà il precipitare della vicenda Scajola, le sue dimissioni e la difficoltà di trovare un sostituto a tambur battente, indussero Berlusconi a salire al Colle, per assumere l’interim dello Sviluppo economico. In quell’occasione, si era al 5 maggio, il presidente del Consiglio rassicurò Napolitano (anticipandone la richiesta) che l’interim sarebbe stato breve, il tempo cioè di individuare una figura di alto profilo, meglio se espressione dei ceti produttivi, comunque in grado di gestire con autorevolezza la fase di crisi e le innumerevoli vertenze aperte, di cui quella Fiat già allora si profilava come la più delicata.
Napolitano concordò sull’assoluta centralità del ruolo assunto da questo ministero, e di conseguenza anche sull’esigenza di provvedere alla sostituzione in tempi brevi. Un mese e mezzo dopo (c’erano nel frattempo stati i rifiuti di Montezemolo e Marcegaglia) era la sera del 17 giugno, giovedì, sono iniziate a circolare voci sempre più insistenti sulla possibile indicazione di Brancher allo Sviluppo, salvo a svegliarsi all’indomani con Brancher ministro sì, ma all’attuazione del Federalismo, una nomina in modo suggestivo sottratta alle compentenze di Bossi, in parte, e in parte a quelle di Rotondi che si occupa di Attuazione del programma, da poco supportato, peraltro, nel suo compito, da un sottosegretario nella persona di Daniela Santanché.
Un cambiamento di delega che non è stato spiegato, ma sul quale – in realtà – un ruolo decisivo è stato svolto proprio dal Quirinale, che da un mese e mezzo attendeva un nome di alto profilo, estraneo alla politica ( si era ipotizzato) per sostituire Scajola, e non era certo questo l’identikit di Brancher, uomo di Publitalia, passato poi a Forza Italia e ufficiale di collegamento, come si dice, fra Bossi e Berlusconi. Non si sa se al Quirinale fossero anche arrivate notizie sui guai giudiziari di Brancher ancora in sospeso, ma è chiaro che anche questo deve aver contribuito a determinare Berlusconi a dirottarlo all’ultimo momento al nuovo ministero: sui guai giudiziari lo Sviluppo aveva già dato, ed era meglio non insistere. Ma la toppa si rivelava ben presto peggiore del buco.
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Ci si attendeva, la domenica successiva, a Pontida, una rivendicazione di paternità da parte di Bossi nella nomina di Brancher, invece arrivava la più secca delle sconfessioni: «Il ministro del federalismo già c’è, e sono io!», tuonava il senatur. E dire che Bossi e Tremonti si erano visti a cena la sera prima della nomina di Brancher, e tutti avevano pensato che l’idea fosse stata concordata lì. Macché…
Che pasticcio, davvero. Rapido dietro front, allora, Brancher – che si scusa con l’amico Umberto – ripiega sulla Sussidiarietà e decentramento, e appena assunto l’incarico (che prima non c’era) si vede subito arrivare così tante incombenze sulla scrivania da invocare il legittimo impedimento per non intervenire al processo che lo riguarda sulla scalata di Antonveneta, per tangenti pagate dall’ex patron della Popolare di Lodi Giampiero Fiorani.
Terminati i fatti, iniziano le illazioni. Autorizzate dall’assoluta illogicità di questi accadimenti, inspiegabili senza, appunto, inserire qualcos’altro. E se vogliamo dare spazio alla peggiore delle illazioni, non si può non ricordare i guai di Brancher, che nel ’93, alla vigilia della discesa in campo di Berlusconi, fu accusato e poi anche arrestato per una tangente pagata all’ex ministro De Lorenzo, vicenda dalla quale uscì (in parte per decorrenza dei termini della prescrizione) senza mai tirare in ballo la Fininvest e Publitalia (società di pubblicità per la quale lavorava) che non furono in alcun modo coinvolte.
Insomma – dicono i maligni – potrebbe esserci un debito di gratitudine del premier a fare da motivazione alla nomina ad uno dei più inutili ministeri, mentre un ministero sempre più cruciale per gestire l’uscita dalla crisi (lo Sviluppo economico) resta senza titolare da ormai due mesi. In questa situazione Napolitano, salvo non voler apparire come un anziano in vacanza nelle accoglienti stanze del Quirinale, non poteva più restare a guardare, visto che quando c’era da attaccare i giudici per prese di posizioni “politiche” non si era tirato indietro. Ma lasciando stare i maligni, la chiosa finale la offre un amico di vecchia data di Brancher, quale è Umberto Bossi: «Mi sembra poco furbo – ha commentato – chiedere il legittimo impedimento subito, è come mettersi al muro per farsi sparare».