Non è solo questione di simboli religiosi, ma anche di quello che la giurisprudenza internazionale – e non solo «l’Europa» – può far valere in casa nostra. Il caso Lautsi, con il ricorso presentato dall’Italia e da molti altri stati europei, Russia compresa, contro la sentenza della Corte europea di Strasburgo del novembre scorso, ha il merito di far discutere su un problema che diversamente sarebbe per pochi addetti ai lavori. Fin dove può arrivare il diritto dell’Unione? Il sussidiario lo ha chiesto a Massimo Luciani, avvocato e costituzionalista.
Professore, qual è lo stato delle cose sul piano del diritto tra istituzioni nazionali sovrane e istituzioni internazionali, come la Corte di Strasburgo?
I rapporti tra ordinamento interno e ordinamento internazionale sono stati definiti, a partire dal 2001, con l’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3, che ha modificato il titolo V della Costituzione. Il nuovo articolo 117, primo comma, stabilisce che anche la legislazione dello Stato, oltre a quella delle Regioni, deve rispettare le norme internazionali. Tutte le norme internazionali, anche quelle dei trattati. Questo significa che la legge statale che fosse in contrasto con la norma di un trattato internazionale sarebbe costituzionalmente illegittima per violazione dell’articolo 117. Questo che le sto dicendo lo ha affermato la Corte costituzionale, interpretando il nuovo articolo 117 con le importanti sentenze 348 e 349 del 2007.
Questo per quanto riguarda i rapporti con il diritto internazionale. E per quanto attiene i rapporti col diritto comunitario?
Ormai da molti anni, facendo leva sull’articolo 11 della Costituzione, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha detto che il diritto comunitario entra direttamente nel nostro ordinamento e prevale addirittura sulle norme costituzionali. Con l’eccezione dei principi fondamentali della Carta costituzionale, che in caso di conflitto restano intangibili anche per il diritto comunitario. Se la norma comunitaria – europea è meglio dire, dopo che è entrato in vigore il Trattato di Lisbona -, o del trattato o di uno dei trattati che regolano il funzionamento dell’Unione, dovesse entrare in contrasto con uno di questi principi fondamentali, la Consulta potrebbe dichiarare illegittima la legge italiana che ha recepito il trattato nel nostro ordinamento.
Lei implicitamente afferma che la strada per limitare eventuali conflitti avvantaggia le Corti nazionali, è così?
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Qui le opinioni sono varie. La maggior parte della dottrina ritiene che l’obiettivo problema di un difficile rapporto tra il diritto interno, il diritto internazionale e il diritto comunitario si possa risolvere soltanto con quello che si chiama il «dialogo tra le Corti», vale a dire un’interlocuzione continua tra la nostra Corte costituzionale, la Corte di giustizia delle comunità europee e la Corte europea dei diritti dell’uomo.
E questo «dialogo» è un’ipotesi plausibile?
È una strada. Ma una parte minoritaria della dottrina – e io ne faccio parte – invece ha dei dubbi che questo dialogo possa risolvere tutti i problemi, perché in alcuni casi le garanzie del diritto comunitario, le garanzie del diritto costituzionale e le garanzie del diritto convenzionale (cioè della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ndr) non coincidono. In tal caso ci possono essere frizioni irrisolvibili. E allora, a mio parere, il vero modo per risolvere queste frizioni sta soltanto nelle mani non della giurisdizione, ma della politica.
Quale dovrebbe essere, a suo modo di vedere, il ruolo della politica?
Quello di riprendere l’iniziativa e decidere cosa fare dell’integrazione europea, soprattutto: se rimanere al punto in cui ci troviamo, o addirittura arretrare, oppure evolvere verso forme di integrazione più robuste. Per esempio verso una vera e propria federazione o confederazione europea. Tanto che ci sia chiarezza sui veri valori fondanti della comunità che stiamo costruendo, perché oggi come oggi l’unica vera comunità politica che abbiamo a disposizione è quella nazionale. Ed è ancora quest’ultima, se le altre non lo sono in senso proprio, la legittima depositaria della sovranità.
Se le Corti sovranazionali applicano leggi cui manca un procedimento di genesi parlamentare, come si può colmare il loro deficit di legittimità?
In effetti le istituzioni internazionali, ma anche quelle comunitarie, hanno una limitata legittimazione democratica. È vero che il trattato di Lisbona ha conferito poteri più rilevanti al Parlamento europeo e agli stessi parlamenti nazionali nell’ambito del procedimento di costruzione del diritto comunitario, ma ancora ci troviamo lontani dal modello classico della democrazia rappresentativa per come è stato costruito nei paesi di democrazia matura. Non posso che tornare alla risposta che le ho dato prima: occorre una consapevolezza dei limiti dell’attuale processo di integrazione, e se ci fosse il consenso, una svolta decisa verso una più forte Europa politica e non soltanto economica.
Cosa insegna lo stop alla ratifica del trattato di Lisbona da parte della Corte costituzionale tedesca?
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Credo che non sia uno stop e che vada esattamente nella direzione che le dicevo. Il tribunale federale tedesco ha sostanzialmente rilevato i limiti dell’attuale strategia di costruzione europea, sottolineando il fatto che ancora oggi non è garantito a livello comunitario il rispetto pieno del principio democratico. Ha quindi implicitamente sollecitato una visione politica più consapevole della possibilità di un approdo all’Europa politica. Resta fermo ovviamente che il tribunale federale tedesco non può decidere quello che solo i cittadini di un’Europa politica possono decidere.
Un provvedimento come il Protocollo 14, adottato per snellire l’enorme numero di procedimenti pendenti della Corte dei diritti, può conferirle più legittimità?
Non credo che il problema della legittimazione della CEDU sia quello della sua efficienza. La questione, una volta di più, è quella di quali sono i valori ai quali riteniamo di dover fare ultimo riferimento quando si registra un contrasto fra principi costituzionali fondamentali, norme convenzionali e norme europee. La mia posizione è che, visto che i valori nei quali una comunità politica si riconosce dovrebbero essere il frutto del libero confronto democratico interno a quella comunità, il riferimento ultimo dovrebbe essere sempre a quelli costituzionali di ciascun ordinamento statale. Quando, invece, il contrasto non si verifica, lo spazio per le giurisdizioni internazionali e sovranazionali è, ovviamente, più ampio.
(Federico Ferraù)