“È ragionevole ipotizzare che nella stagione dei grandi delitti e delle stragi si sia verificata una convergenza di interessi tra Cosa nostra, altre organizzazioni criminali, logge massoniche segrete, pezzi deviati delle istituzioni, mondo degli affari e della politica”. È questo uno dei passi salienti della relazione di oggi di Beppe Pisanu, presidente della Commissione Antimafia, e anche uno di quelli che faranno più discutere.
È da tempo che si parla del “patto Stato-mafia”, che se ne cercano le tracce nelle inchieste in corso, quelle che vedono al centro uomini come Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo, il colonnello Mario Mori, il pentito Gaspare Spatuzza, Lorenzo Narracci dell’Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna) e molti altri. le parole di Pisanu nella sua relazione di oggi aggiungo tessere ad un mosaico di non facile interpretazione, se il procuratore di Palermo Pietro Grasso, al termine dell’audizione in commissione Giustizia sul ddl intercettazioni, ha detto – a chi gli chiedeva un commento alla relazione di Psanu – che “le teorie sono belle ma nei processi abbiamo bisogno delle prove giudiziarie. Le prove costruite su tante fonti non hanno mai consentito di costruire la prova penale individualizzante in grado di accertare responsabilità”.
La relazione del presidente dell’Antimafia, dal significativo titolo I grandi delitti e le stragi di mafia ‘92-’93, suggerisce prospettive di indagine, formula scenari, tenta di trarre le conclusioni, componendo un quadro unitario, a partire dalle – poche – verità processuali e dalle – molte – congetture che emergono da anni di indagini sulla “seconda strategia della tensione” che ha segnato il nostro paese negli anni ‘90.
Ma quello che senz’altro non mancherà di suscitare polemiche è la tesi che una trattativa Stato-mafia, per Pisanu, c’è stata. L’ex ministro dell’Interno ha detto chiaramente – richiamandosi ad una tesi già espressa da Giovanni Falcone – che “non esistono ‘terzi livelli’ di alcun genere capaci di influenzare o addirittura determinare gli indirizzi di Cosa nostra”. Ammettere “l’esistenza – ha proseguito Pisanu – di centrali del crimine, burattinai e grandi vecchi che dall’alto dettano l’agenda o tirano le fila della mafia, significa peccare di rozzezza intellettuale”. Tuttavia, anche se dalla storia intricata di quegli anni, fatta di instabilità politica e attentati di chiara matrice mafiosa, emerge “l’estraneità del governo alla trattativa” con la mafia, non si può escludere che “qualcosa del genere ci fu e Cosa nostra la accompagnò con inaudite ostentazioni di forza”. È chiaro il riferimento alle stragi di Capaci e Via D’Amelio e poi agli Uffizi, a Via Palestro, a quella mancata dell’Addaura.
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Il nesso Stato-mafia c’è stato dunque, conferma Pisanu. Ma è difficile circoscriverlo, comprovare la parte che i nomi eccellenti hanno avuto nella vicenda, dissipare la nebbia che avvolge, finora rendendo impossibile, il tentativo di consegnare alla storia del paese una lunga parentesi su cui non esiste una verità processuale, elemento essenziale per stabilire una verità storica. “Anche la semplice narrazione dei fatti induce a ritenere che vi furono interventi esterni alla mafia nella programmazione ed esecuzione delle stragi – ha detto Pisanu nella sua relazione -. Fin dall’agosto del ‘93 un rapporto della Dia aveva intravisto e descritto un’aggregazione di tipo orizzontale, in cui rientravano, oltre alla mafia, talune logge massoniche di Palermo e Trapani, gruppi eversivi di destra, funzionari infedeli dello Stato e amministratori corrotti. Sulla stessa linea, pur restringendo il campo, il procuratore di Caltanissetta Lari ha sostenuto recentemente che Cosa nostra non è stata eterodiretta da entità altre, ma che al tavolo delle decisioni si siano trovati, accanto ai mafiosi, soggetti deviati dell’apparato istituzionale che hanno tradito lo Stato con lo scopo di destabilizzare il Paese mettendo a disposizione un know-how strategico e militare”.
Alcuni punti fermi però ci sono, secondo Pisanu, a cominciare per esempio da due trattative procedute in parallelo, fino a divergere in un secondo tempo: quella tra Mori e Ciancimino “che forse fu la deviazione di un’audace attività investigativa” e quella tra Bellini-Gioè-Brusca-Riina,dalla quale nacque l’idea di aggredire il patrimonio artistico dello Stato”.
Secondo Pisanu, il “patto” avrebbe avuto una moneta di scambio ben precisa, perché la mafia non era certo disposta a sedersi inutilmente al tavolo delle “trattative”. Lo scopo della mafia, secondo Pisanu, era quello di ottenere dalla classe politica l’abolizione del carcere duro, il 41 bis – il presidente dell’Antimafia ha citato la “singolare corrispondenza di date che si verifica, a partire dal maggio del ‘93, tra le stragi sul territorio continentale e la scadenza di tre blocchi di 41 bis emessi nell’anno precedente” – e il ridimensionamento di tutte le “attività di prevenzione e repressione”.
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È stato l’intreccio mafia-politica a produrre la sequenza di attentati del 1992-93, ma le conseguenze sono state complesse e secondo Pisanu hanno sortito un duplice effetto: da un lato lo “smarrimento politico-istituzionale che fece temere al presidente del Consiglio di allora l’imminenza di un colpo di Stato”, dall’altro l’inasprimento delle misure repressive seguite a quegli episodi di sangue, “che indusse Cosa nostra a rivedere le proprie scelte e prendere la strada dell’inabissamento. Nello spazio di questa divergenza si aggroviglia quell’intreccio che più volte abbiamo visto riemergere dalle viscere del Paese”.
“Cosa nostra – ha detto ancora Pisanu nella sua relazione – ha forse rinunciato all’idea di confrontarsi da pari a pari con lo Stato, ma non ha certo rinunciato alla politica. Bloccato il braccio militare, ha certamente curato le sue relazioni, i suoi affari, il suo potere. Ma dagli anni ‘90 ad oggi ha perduto quasi tutti i suoi maggiori esponenti, mentre in Sicilia è cresciuta grandemente un’opposizione sociale alla mafia che ha i suoi eroi e i suoi obiettivi civili e procede decisamente accanto alla magistratura e alle forze dell’ordine”.
Non è mancata, infine, la replica di Pisanu al procuratore Grasso, che a commento ha invocato meno teorie e più prove. “La mia è un’analisi politica”, ha risposto Pisanu.