Correntismo, questione morale, manovra, intercettazioni, la maggioranza deve superare più di un ostacolo, sanando malumori che sembrano interessare tutte le anime che la compongono. Mentre l’opposizione è assente ingiustificata al centro qualcosa si muove. Peppino Caldarola ne ha discusso con IlSussidiario.net.
L’ipotesi del ritorno di Casini nelle fila del centrodestra è tornata prepotentemente all’ordine del giorno grazie al diktat di Umberto Bossi (“O noi o l’Udc”). Ciò che inizialmente sembrava una semplice boutade ha in realtà un certo fondamento?
Questo riavvicinamento non è fantapolitica, anche se allo stato attuale convivono due verità inconciliabili: Berlusconi spera che Casini entri nel governo, in modo da poter fronteggiare più facilmente la dissidenza di Fini. Casini però non è disposto a entrare in questo esecutivo, in caso di crisi di governo, sarebbe invece disponibile a formare una maggioranza di larghe intese che arrivi fino al Pd.
Non sembrano esserci perciò i margini per un centrodestra rinforzato dai centristi?
Non credo, Berlusconi non ha alcuna intenzione di affrontare una crisi di governo e gli scenari imprevedibili che ne potrebbero seguire, Casini non vuol ridursi a fare da stampella. Penso che il premier voglia invece dimostrare a Fini di poterlo sostituire quando vuole, facendogli capire che lo ritiene un ingombro fastidioso e irrilevante.
Portando a termine l’operazione, Berlusconi causerebbe comunque uno strappo con la Lega?
Le dichiarazioni di Bossi non lasciano dubbi in questo senso. D’altra parte, una delle posizioni più nette assunte dall’Udc in Parlamento è stata la votazione contro il federalismo. Per il Carroccio questo è inaccettabile. La Lega non accetterà ulteriori ostacoli sul cammino della riforma federale, piuttosto si muoverà verso il voto anticipato. Anche lo stesso Casini comunque, avrebbe soltanto da perdere in un’ipotesi di questo tipo.
Cosa intende?
Per il leader Udc sarebbe molto più saggio mettere a frutto il piccolo capitale maturato in questi anni di opposizione, piuttosto che fare marcia indietro. La visibilità di questi giorni è la dimostrazione del peso politico che è riuscito a ottenere stando fuori dai poli.
A impensierire la maggioranza non ci sono però soltanto i movimenti di Casini, ma la voce sempre più insistente dello scontro finale tra Berlusconi e Fini…
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Le distanza tra le due anime del Pdl è al massimo storico, basta leggere cosa dicono i finiani del ddl intercettazioni e delle possibili dimissioni del coordinatore azzurro Verdini. L’aggressività della piccola truppa del Presidente della Camera si scontra sempre più con l’insoddisfazione degli azzurri che chiedono a gran voce la resa dei conti. Anche le ultime dichiarazioni di Schifani vanno lette in questo senso.
La rottura secondo lei è inevitabile?
I berlusconiani chiedono insistentemente una scelta definitiva: “o dentro o fuori”. Alle condizioni che gli vengono poste però Fini non può rimanere. Se non ci saranno sorprese c’è da aspettarsi una separazione, più o meno consensuale, in autunno.
Nascerà un nuovo partito finiano all’interno del centrodestra o nel nuovo e ipotetico terzo polo?
Il primo passo potrebbe essere la formazione di un gruppo parlamentare ancorato alla maggioranza. Un gruppo dal valore forse più simbolico che numerico, ma non dimentichiamoci che i simboli in politica hanno il loro peso. Dipenderà poi da come si realizzerà questo strappo, se sarà una separazione consensuale o se si tratterà di una vera e propria espulsione.
Di terzo polo, invece, si parla da anni, lo stesso Fini ci aveva provato in passato con Mario Segni. Resta però un’ipotesi politica che si potrà realizzare solo davanti a una prospettiva elettorale immediata.
Un altro fronte aperto per il governo è quello con le Regioni. La trattativa sulla Manovra non è andata a buon fine e ha causato l’inedito scontro tra il ministro Tremonti e alcuni governatori del Pdl e della Lega…
È uno degli aspetti più schizofrenici di questa maggioranza: da un lato sventola la bandiera del federalismo, dall’altro si accanisce sulle regioni e su alcuni governatori considerati fino a ieri un fiore all’occhiello per tutto lo schieramento. D’altra parte la scelta miope di Tremonti di non intervenire sui grandi patrimoni, le ricchezze finanziarie e le banche andava fatta pagare a qualcuno.
L’ennesimo scoglio che attende il governo sarà infine il ddl intercettazioni con il suo carico di malumori proveniente dal Quirinale e dal mondo della stampa…
I dubbi di Napolitano impongono a Berlusconi di perfezionare una legge che il Quirinale possa davvero firmare. Un minimo di saggezza imporrebbe che la riflessione non venisse fatta nel caldo torrido d’agosto, ma con più calma, in autunno. Ormai però si tratta di una legge “di bandiera”, che significa molto più per tutto ciò che evoca più che per quello che comporta veramente. Se Berlusconi sceglierà di insistere con il braccio di ferro con Napolitano e Fini rischiano di aprirsi scenari inimmaginabili.
Alla luce di tutte queste problematiche il governo, secondo lei, è vicino a una crisi?
Osservando tutti questi segnali direi proprio di sì, l’assenza di un’alternativa garantisce però al governo il fiato per resistere ancora qualche tempo. Siamo comunque, a mio avviso, davanti al disfacimento del quadro politico generale, entrambi gli schieramenti dovranno assolutamente provare a rimettere ordine al loro interno, prima che sia troppo tardi.
Le fa impressione la totale assenza dell’opposizione in un momento così difficile per la maggioranza?
In effetti sì. Il Pd, in realtà, conduce un’onesta opposizione parlamentare, ma è totalmente sprovvisto di un colpo d’ala. Non ha una presenza sulla scena tale da diventare per la gente il rappresentante immediato dell’oggi (e non del domani) in alternativa a Berlusconi. È un problema per il Pd, ma anche per il Paese, perché in questo modo non si aiuta l’evoluzione del quadro politico. Le discussioni interne di queste settimane di certo non fanno ben sperare.
A cosa si riferisce?
Il Partito Democratico si è diviso sulla parola “compagni” o sul socialismo europeo, si dilania continuamente su temi identitari ancorati al passato e non sa decidere sugli aspetti programmatici. Tutto questo mentre non è ancora chiaro con chi vuole costruire l’alternativa e con quale programma. Così, di certo, non si va lontano.