L’articolo di Stefano Rodotà apparso nei giorni scorsi su Repubblica aveva un titolo coerente con le posizioni da tempo espresse dall’autore in tema di diritti individuali: il riconoscimento del matrimonio gay come dovere del Parlamento. La provocazione sta tutta nel termine: dovere, che entra in evidente rotta di collisione con quanto afferma poco più avanti facendo riferimento al dialogo come metodo democratico “in un paese che onora la civiltà della discussione”.



Ma c’è provocazione anche quando parla di “prepotenza ideologica di chi vuole imporre i propri valori definendoli non negoziabili”, mentre afferma contundentemente che “in Italia esistono due categorie di unioni destinate a regolare i rapporti di vita tra le persone. Due categorie che hanno analoga rilevanza giuridica e dunque medesima dignità…”.



Il tono, il contenuto e l’approccio al tema fanno pensare che per Rodotà le unioni omosessuali siano un valore non negoziabile, evidentemente caratterizzato da una prepotenza ideologica tutt’altro che indifferente. Il fatto che le unioni omosessuali e quelle basate sul matrimonio abbiano analoga rilevanza giuridica è poi cosa tutta da dimostrare, sostanzialmente negata dalla recente sentenza della Corte costituzionale.

Infatti lo stesso tema può essere affrontato in chiave diametralmente opposta: il diritto del Parlamento a ribadire il valore del matrimonio nel dettato costituzionale, alla luce dell’interpretazione autentica che ne dà il codice civile con gli articoli che si leggono durante la celebrazione del matrimonio, civile e religioso. A Rodotà, che sostiene che il Parlamento italiano è inadempiente e vada richiamato ai suoi doveri, si può obiettare che lungi dall’essere inadempiente il Parlamento italiano stia esercitando il suo diritto a custodire una tradizione sociale e culturale consolidata sia dalla nostra Costituzione che dagli articoli del codice civile, che definiscono la struttura giuridica del matrimonio sia religioso che civile.



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Il fatto. Punto di partenza di questo dibattito è il rifiuto di un ufficiale di stato civile del Comune di Venezia di procedere alla pubblicazione di matrimonio richiesta da una coppia omosessuale. L’ufficiale di stato civile aveva ritenuto illegittima la pubblicazione, perché in contrasto con la normativa vigente in quanto il matrimonio nell’ordinamento giuridico italiano «è inequivocabilmente incentrato sulla diversità di sesso dei coniugi».

La diversità infatti «costituisce presupposto indispensabile, requisito fondamentale, a tal punto che l’ipotesi contraria, relativa a persone dello stesso sesso, è giuridicamente inesistente e certamente estranea alla definizione del matrimonio, almeno secondo l’insieme delle normative tuttora vigenti» e secondo l’orientamento della giurisprudenza.

A questa vicenda seguono due sentenze, una del Tribunale di Venezia e una della Corte costituzionale che contengono pesanti affermazioni contraddittorie: più ambigua quella del Tribunale e più chiara, ma sottilmente elusiva quella della Corte costituzionale.

La posizione del Tribunale di Venezia. La coppia aveva denunciato la discriminazione di cui riteneva di essere stata oggetto al Tribunale di Venezia, sostenendo che nell’ordinamento italiano non esiste una nozione di matrimonio, né un divieto espresso di matrimonio tra persone dello stesso sesso. La sentenza del Tribunale si articola in tre passaggi molto diversi tra di loro, a cui corrispondono interpretazioni divergenti e contraddittorie, su cui vale la pena soffermarsi.

A) Prima fase. No al matrimonio omosessuale
. Il Tribunale accetta l’interpretazione della norma data dall’ufficiale di stato civile e fa rilevare come solo apparentemente nell’ordinamento vigente il matrimonio tra persone dello stesso sesso non sia previsto né vietato espressamente. Afferma che «pur non esistendo una norma definitoria espressa, l’istituto del matrimonio, così come previsto nell’attuale ordinamento italiano, si riferisce indiscutibilmente solo al matrimonio tra persone di sesso diverso. Gli articoli 2, 3, 29 e 117, primo comma, della Costituzione, e gli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, «sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso».

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Altre norme del codice civile si riferiscono al marito e alla moglie come “attori” della celebrazione (artt. 107 e 108), protagonisti del rapporto coniugale (artt. 143 e ss.) e autori della generazione (artt. 231 e ss.)». Per cui secondo il Tribunale, proprio per il chiaro tenore delle norme indicate, non è possibile allo stato delle disposizioni vigenti, operare un’estensione dell’istituto del matrimonio anche a persone dello stesso sesso. Sarebbe stata una forzatura non consentita ai giudici «a fronte di una consolidata e ultramillenaria nozione di matrimonio come unione di un uomo e di una donna».

In sintonia con questa impostazione cita anche un parere del Ministero dell’interno, del 28 luglio 2004, nel quale si legge che «in merito alla possibilità di trascrivere un atto di matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, si precisa che in Italia tale atto non è trascrivibile in quanto nel nostro ordinamento non è previsto il matrimonio tra soggetti dello stesso sesso in quanto contrario all’ordine pubblico». Affermazione ribadita dallo stesso Ministero il 18.X.2007.

B) Seconda fase. Prendere atto dei cambiamenti sociali
. Il Tribunale di Venezia però aggiunge che «non si può ignorare il rapido trasformarsi della società e dei costumi avvenuto negli ultimi decenni, nel corso dei quali si è assistito al superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia normale, tradizionale e al contestuale sorgere spontaneo di forme diverse, seppur minoritarie, di convivenza, che chiedono protezione, si ispirano al modello tradizionale e, come quello, mirano ad essere considerate e disciplinate. Nuovi bisogni, legati anche all’evoluzione della cultura e della civiltà, chiedono tutela, imponendo un’attenta meditazione sulla persistente compatibilità dell’interpretazione tradizionale con i principi costituzionali».

Da questa analisi del contesto sociale nasce la domanda che il Tribunale pone alla Corte Costituzionale, sollecitando una riflessione che valuti la compatibilità dell’interpretazione tradizionale dei principi costituzionali alla luce delle mutate circostanze sociali e culturali del Paese.

C) Terza fase. Perché non dire sì al matrimonio omosessuale…
Il Tribunale chiede alla Corte costituzionale di avallare una diversa interpretazione della normativa vigente per riconoscere i matrimoni gay. Introduce nella sua analisi una serie di riflessioni in evidente contraddizione con quanto sostenuto poco prima. Parte dall’articolo 2 che tutela i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali… Considerando la famiglia come la formazione sociale primaria nella quale vengono tutelati i diritti inviolabili della persona, ipotizza che qualunque discriminazione rispetto al diritto a far famiglia, sia una violazione di un diritto inalienabile.

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La libertà di sposarsi o di non sposarsi, di scegliere il coniuge autonomamente, riguarda la sfera dell’autonomia e dell’individualità, per cui è una scelta nella quale lo Stato non può interferire, a meno che non sussistano interessi prevalenti incompatibili, come ad esempio quello dei figli. Il Tribunale segnala come molti ordinamenti che consentono il matrimonio omosessuale, distinguano però accuratamente tra il diritto a sposarsi e il diritto ad adottare dei bambini. In ogni caso, si dice, la disciplina sull’adozione ponendo l’accento sulla necessità di valutare l’interesse del minore adottando, rimette al giudice ogni decisione al riguardo.

Analizzando l’art. 3 della Costituzione, il Tribunale considera il diritto di contrarre matrimonio come un elemento essenziale di espressione della dignità umana che va garantito a tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni personali, come l’orientamento sessuale. Ne consegue l’obbligo per lo Stato d’intervenire in caso d’impedimenti al suo esercizio. Quindi a norma dell’art. 3 della Costituzione, che vieta irragionevoli disparità di trattamento, non sarebbe possibile escludere gli omosessuali dal diritto di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso. In modo analogo alla persone transessuali che, una volta riconosciuto il proprio cambiamento di sesso, possono contrarre matrimonio con persone del proprio sesso di nascita (sentenza della Corte costituzionale n.165 del 1985).

Non sarebbe infatti giustificabile la discriminazione tra transessuali e omosessuali, che non vogliono effettuare alcun intervento chirurgico di adattamento e ai quali il matrimonio è precluso.
L’eterosessualità, finora pretesa dal nostro ordinamento, nascerebbe da una tradizione sorta in un contesto sociale del tutto diverso dall’attuale e tramandata anche per gli stretti rapporti che intercorrono tra disciplina canonistica e sistema civilistico. La dimensione storica del fenomeno, tuttavia, non dovrebbe essere di ostacolo ad una rivisitazione della normativa, come è accaduto in altre Corti costituzionali straniere.

In definitiva secondo il Tribunale di Venezia sembra che, considerati i cambiamenti sociali, non dovrebbero esserci ostacoli al riconoscimento del matrimonio omosessuale: “Non sarebbe possibile sostenere che i costituenti abbiano eletto l’eterosessualità a caratteristica indefettibile della famiglia, i cui diritti sono riconosciuti e garantiti dall’art. 29 Cost., tanto da escludere dall’ambito applicativo di tale norma le coppie formate da persone dello stesso sesso”. Ciò che lascia del tutto spiazzati però è l’assoluta contraddizione tra le argomentazioni iniziali e quelle finali della sentenza.

La risposta della Corte costituzionale ripercorre, confutandole, le varie tesi e conclude dichiarando inammissibile la questione di legittimità costituzionale. Mostra come tutta la normativa riguardante l’istituto del matrimonio, sia quella prevista dal diritto civile, sia quella di rango costituzionale, si riferisce senz’altro all’unione fra persone di sesso diverso. Ricava il requisito della diversità del sesso dall’art. 107 del codice civile, e da altre numerose disposizioni dello stesso codice.

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Sottolinea come il requisito della eterosessualità sia tradizionalmente e costantemente annoverato dalla dottrina e dalla giurisprudenza tra i requisiti indispensabili per l’esistenza del matrimonio, considerato come un istituto pubblicistico diretto a disciplinare determinati effetti, che il legislatore tutela come diretta conseguenza di un rapporto di convivenza tra persone di sesso diverso: filiazione, diritti successori, legge in tema di adozione.

Il carattere di società naturale proprio della famiglia ne specifica l’aspetto pregiuridico e identifica un solo modello di famiglia, univoco e stabile, che per quanto suscettibile di sviluppi e cambiamenti, è caratterizzato “da un nucleo duro”, che trova «il suo contenuto minimo e imprescindibile nell’elemento della diversità di sesso fra i coniugi» e perciò mantiene il significato originario fissato nella Carta, senza modificarlo rispetto alla formulazione iniziale. Precisa anche come non ci sia alcuna violazione dell’art. 3, perché questo articolo impone un uguale trattamento per situazioni uguali e trattamento differenziato per situazioni di fatto difformi. In quanto all’art. 29, «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», e «vincola il legislatore a tenere distinte la disciplina dell’istituzione familiare da quelle eventualmente dedicate a qualsiasi altro tipo di formazione sociale, ancorché avente caratteri analoghi».

La sentenza inoltre ricorda che l’ordinamento comunitario non ha legiferato in materia matrimoniale, ma si è limitato in varie risoluzioni ad indicare criteri e principi, lasciando ai singoli Paesi membri la facoltà di adeguamento delle legislazioni nazionali. La libertà lasciata ai legislatori europei ha dato luogo a varie forme di tutela delle coppie omosessuali. Per questo eventuali tutele e garanzie da dare alle coppie omosessuali sono affidata alla discrezionalità del Parlamento. Ma mentre si riconosce che anche le unioni omosessuali, in quanto forme di convivenza stabile, hanno valore sociale come espressione del diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia occorre ricordare tutti i distinguo contenuti nella sentenza che non consentono nessuna equiparazione possibile tra coppie gay e unioni matrimoniali.

Lo dice bene la sentenza quando commentando l’art. 3 della Costituzione ribadisce che esso impone un uguale trattamento per situazioni uguali e trattamento differenziato per situazioni di fatto difformi.

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In conclusione
.La sentenza della Corte, oltre a dichiarare inammissibili le questioni di costituzionalità poste dal Tribunale di Venezia, esclude anche qualsiasi intervento di tipo manipolativo attraverso un’operazione lessicale di mera sostituzione delle parole “marito” e “moglie”, con la parola “coniugi”, perché in realtà si tratterebbe di modificare l’intero tessuto normativo alla luce di una norma costituzionale che proprio ad esso rimanda.

È stato l’escamotage a cui è ricorsa la Spagna di Zapatero per legittimare ed equiparare i diversi tipi di unione, eliminando le differenze lessicali, per cui non solo sono scomparsi i termini di marito e moglie, ma anche quelli di padre e madre.

È diritto del Parlamento verificare che non accada ciò che è già accaduto in altre circostanze, ossia che dalle sentenze di un tribunale si ribaltino principi consolidati e valori che appartengono alla cultura e alla tradizione di un Paese.

Per cui mentre si cerca di garantire nel modo più corretto una serie di diritti alle persone omosessuali, evitando ogni possibile forma di discriminazioni sul piano personale, si mantiene chiara e forte la distinzione tra la famiglia basata sul matrimonio e qualsiasi altro tipo di unione. Anche questo è detto in modo inequivocabile nella sentenza della Corte costituzionale.