Se Augusto Del Noce fosse ancora vivo si stupirebbe di come tutte le sue previsioni sul destino della sinistra italiana siano riuscite a condensarsi nell’azione politica di una sola persona. Per capire Nichi Vendola bisogna, infatti, leggere il più importante filosofo cattolico del ‘900 italiano che nel suo Il suicidio della rivoluzione (1978) diagnosticò nei minimi particolari il destino della sinistra italiana post-gramsciana. Attraverso Il suicidio della rivoluzione si può quindi leggere l’ultima intervista del candidato leader del centrosinistra (Libero, 21 luglio).



La prima evoluzione della sinistra, disse Del Noce, sarebbe stata quella del libertinismo (da intendersi nel senso di massimo permissivismo morale) come conseguenza di una concezione della storia in termini di “emancipazione” da un passato “oscurantista”. Del Noce inseriva addirittura de Sade tra gli antesignani della sinistra. Nichi Vendola è, in questo senso, perfetto: è orgogliosamente (anche se non ostentatamente) gay, è a favore dell’adozione da parte dei singles, dell’aborto, del divorzio, dell’eutanasia e dei matrimoni omosessuali.



Sono posizioni condivise da tutta la sinistra (che, infatti, ha espulso l’unica “oscurantista” che le contestava, Paola Binetti) ma in lui assumono un rilievo maggiore che caratterizzano la sua figura pubblica al punto da sostenere che “l’Italia è pronta per un premier gay”. E tra le tante critiche che Vendola rivolge alla sinistra, la più interessante è proprio quella di “non avere inteso la trasformazione del paesaggio sociale italiano”, cioè di essere dietro al popolo e non davanti per poterlo guidare verso il progresso (quello di “guidare” il popolo è un’ossessione tipicamente gramsciana).



Sempre Del Noce sosteneva, seguendo in questo Gramsci, che il legame con il popolo sarebbe avvenuto attraverso l’appropriazione dell’unica radice culturale che lo ha formato nel corso dei secoli, ovvero il cattolicesimo.

Nichi Vendola ha intitolato l’aeroporto pugliese a Karol Wojtyla nonostante in tutti i suoi pronunciamenti e in tutte le sue encicliche Giovanni Paolo II abbia ribadito il modo determinato l’opposizione della Chiesa e della morale cattolica a tutte le battaglie con le quali Nichi Vendola caratterizza la propria azione politica. Sarebbe un errore pensare che Vendola intitoli l’aeroporto (!) a Wojtyla per banale populismo. Non è (solo) questo. È il tentativo di collegarsi alla cultura popolare assumendone i simboli e, in modo caotico, i valori purificandoli da ogni riferimento trascendente e trasformati, dice Del Noce, in “strumenti per l’accrescimento del nostro tono vitale”.

 

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Le frasi “Batterò Berlusconi perché è troppo vecchio” o “Io concepisco la vita come danza della vita” o, ancora, “Voglio portare un po’ di vita nel centrosinistra” rientrano in questo vitalismo.

“La distruzione della religione non dovrebbe però venire cercata per le vie di una propaganda ateistica diretta – spiega Del Noce – ma per quelle di una pedagogia storicistica. Attraverso la riflessione sulla storia presente il giovane dovrebbe giungere alla convinzione che il cattolicesimo appartiene a un passato irrevocabilmente trascorso, perché non sarebbe possibile attenersi ad esso come a una norma di vita”.

Più volte Vendola ha ribadito, anche in modo appassionato, di riconoscersi nel valore della famiglia che svuota di significato sostenendo contemporaneamente anche i matrimoni omosessuali.

In questo modo, spolpati i valori della loro attinenza con la vita e spolpata la fede della trascendenza ci si può presentare al tempo stesso a favore dell’aborto e difensore della Chiesa. In questa confusione può succedere anche di dichiararsi ammiratori di Falcone e Borsellino e al tempo stesso definire Carlo Giuliani “un eroe ragazzino”.

Poi c’è il tema cruciale dell’alleanza con la borghesia della quale Nichi Vendola non è avversario e non solo per semplici interessi elettorali, ma perché, spiega il filosofo, “la rinuncia del comunismo alla mentalità messianica coincide con la rinuncia della borghesia alle norme della morale. Si stabiliscono così le condizioni per l’integrazione del comunismo alla società democratico-borghese”.

 

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“Sono una persona di una sobrietà totale”, dice Vendola nell’intervista, cioè, appunto, borghese, ma borghese “illuminato” che, insieme alle forze progressiste, identifica il “nemico della rivoluzione” nella delnociana “tradizione creatrice”, quella che non nega la tradizione pur nel mutare delle circostanze storiche. Dall’alleanza del marxismo con la borghesia illuminata, il suicidio della rivoluzione.

In tutto questo l’antica predilezione per la “classe operaia” (termine che ha sostituito i “poveri” del linguaggio cristiano) viene ribadita con grandissima forza in tutte le dichiarazioni pubbliche, con straordinaria passione e trasporto, ma alla fine, come nella vicenda di Pomigliano, i lavoratori diventano delle icone che devono difendere, sì, la “dignità del lavoro”, ma insieme anche la Costituzione e dimostrare che è possibile “un’alternativa a Berlusconi”.

La scelta tra il “sì” e il “no” al contratto proposto dalla Fiat diventa così non una battaglia per la difesa di “quel” posto di lavoro, ma diventa un voto politico e, come tale, trasforma le persone in difensori della democrazia. Così, nel caso (probabile) in cui non riuscisse a ottenere la leadership del partito avrà buon gioco nel sostenere che a tradirlo è stata una classe operaia ancora “arretrata” e quella parte di mondo cattolico “oscurantista”. Entrambi da educare.

Un’ansia di “liberazione” che non lo poteva portare ad altro che ad attaccare il Meeting di Rimini, “decisivo per la semina che porta alla vittoria culturale della destra”. Ma, nello stesso tempo, non potendolo assimilare, perché “tradizionalista”, lo vorrebbe imitare, tanto che le “Fabbriche di Nichi” dovrebbero diventare, disse in un’altra intervista “l’equivalente del Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini” nelle quali, però, la trascendenza viene sostituita dal progresso e la testimonianza sostituita dal “dovere”.
 

 

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“La fede mi sta aiutando molto a vincere la paura e a non farmi fuggire davanti ai miei doveri”, ha detto nell’intervista a Libero. Doveri che s’impongono a causa della “fatalità dei processi politici e sociali”. Nota bene: nel lessico vendoliano “destra” è sinonimo di “antico”, “passato”, “tradizionale”, cioè “nemico” del suo “progresso” (“vecchie liturgie” definì i rapporti interni al Pd). Progresso che irromperà come una “eruzione di buona politica” che “manda all’aria i piani sempre uguali a sé stessi” come ha fatto il vulcano islandese Eyjafjallajokull in primavera quando sconvolse il traffico aereo mondiale “facendo perdere milioni e milioni di euro ai vettori”, disse con soddisfazione. Al vulcano Eyjafjallajokull ha così intitolato le sue “Fabbriche”.

Ci sarebbe da chiedersi come mai, anche da parte di tanti cattolici impegnati in politica, c’è attenzione verso il “fenomeno” Vendola. Qui entra in gioco un’altra posizione caratterizzante del profilo politico di Vendola, l’interclassismo. Giuseppe Riconda nella postfazione a Il suicidio della rivoluzione (Aragno, 2004) spiega che “l’interclassismo, che equivale al disconoscimento della realtà delle classi, ha come conseguenza la perdita del contatto con la società storica in cui si deve operare e importa che si instauri un rapporto totalizzante ed esclusivo con la dimensione ecclesiastica. In tale situazione si forma il partito cattolico che spinge l’unità di politica e religione al punto da risolvere la religione in un momento dell’attività politica fino a considerare la religione quale ‘pilastro della società’ ed esaurirla in questa funzione”.

 

I cattolici democratici possono tranquillamente stare con Vendola perché non rinnega affatto (anzi) la religione come “pilastro della società”, a patto che nulla abbia a che fare con l’azione politica. Un interclassismo evidente anche nelle parole di Vendola. Alla domanda su quale sia il suo universo sociale di riferimento la risposta non poteva che essere un guazzabuglio: “I precari, la giovane classe operaia, il popolo delle partite Iva, il sistema d’impresa, il mondo dei ricercatori”.

La domanda logica da farsi è, a questo punto, una sola: se la rivoluzione si suicida, Vendola ne è il becchino?