Stabilità o instabilità, possibilità di interventi efficaci, maggioranze risicate, governo di larghe intese, nuovi partiti, nuove elezioni: tutto sembra possibile e tutto ruota ormai intorno allo scioglimento del nodo che riguarda i rapporti tra i cofondatori del Pdl. È prevalente l’auspicio di un’intesa o comunque di una tregua. Ma in politica ogni accordo è possibile salvo il caso in cui uno dei soggetti fonda le proprie fortune sulla sfortuna dell’altro e non vede altra via di ascesa se non la discesa altrui.



È questo il caso Fini-Berlusconi? Certamente il Presidente della Camera ha motivi di lamentela a cominciare dal fatto che Berlusconi ha interpretato la scelta dell’ex leader di An di salire al vertice di Montecitorio come una volontà di Fini di costruirsi un’immagine di statista crescendo sul piano istituzionale e quindi non più co-leader del governo.



Questa “istituzionalizzazione” di Fini ha determinato automaticamente due fenomeni devastanti per la componente ex An: da un lato Gianfranco Fini ha dovuto assumere un atteggiamento più defilato e non appiattito sulla politica governativa proprio in osservanza del suo ruolo di garante credibile anche per le opposizioni e dall’altro i suoi seguaci in seno al partito e al governo sono diventati obiettivamente “orfani” di una leadership tallonante e quotidiana facendosi assorbire dalla guida berlusconiana in cui trovavano direttamente, senza mediazioni, ispirazione, incoraggiamento, riscontro e protezione.



Ma all’origine della sostanziale cooptazione di An nel berlusconismo c’è la responsabilità personale proprio di Fini. Probabilmente ha commesso errori non evitabili, ma il ridimensionamento di Fini nell’ambito del Pdl è la logica conseguenza di due suoi errori o difetti. Se An – soprattutto il suo elettorato – è “facile preda” di Berlusconi ciò è la conseguenza del fatto che da Fiuggi in poi – e cioè da quando Fini ha rotto con l’identità e la tradizione del Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante – non è però stato capace di individuare l’ancoraggio di dirigenti ed elettori a un altro sistema di valori forti.

Ipotizzare a questo punto che egli sia in grado di trasumanare una reale consistenza elettorale da An alla sinistra del Pdl per dar vita a un "terzo polo" può apparire possibile nei sondaggi, ma è scarsamente ipotizzabile nelle urne. Mentre nel Pd le componenti che si sono unificate hanno mantenuto un "legame forte" rispettivamente con il Pci e la Dc riproponendosi come gli eredi del meglio della storia di quei partiti, Fini si è unificato senza una storia alle spalle e quindi come naturalmente amalgamabile.

È in questo quadro di sostanziale impotenza che è cresciuto il malumore di Fini per non essere stato associato alle scelte quotidiane di governo soprattutto nel momento in cui si affrontavano positivamente momenti difficili in politica interna, economica ed in politica estera. I risultati del governo – la ricostruzione post-terremoto, la crisi finanziaria, il policentrismo internazionale – sono stati vissuti con fastidio dal Presidente della Camera che ha ricercato la sottolineatura di un suo ruolo determinante.

Mentre in passato Fini aveva coltivato l’esaltazione della sua individualità politica nella traduzione italiana di modelli di innovazione conservatrice sulle orme di Sarkozy, ora ha reagito alla riaffermata egemonia berlusconiana nel voto delle amministrative rivendicando la centralità della sua postazione istituzionale. È sceso in campo e si è posto dalla cattedra di Montecitorio come novello Ghino di Tacco.

Fini ha in mano l’asse della governabilità? E in che cosa consiste la governabilità oggi? Numeri o problemi? In questo momento l’asso della governabilità consiste nel riscuotere fiducia circa la capacità di affrontare la crisi economica e di far fuoriuscire il paese dall’incubo di svalutazione e disoccupazione. Berlusconi può essere annientato se si ha in mano ricetta più credibile e coalizione più omogenea per realizzarla. Fini punta quindi a mettere in discussione Tremonti e a destabilizzare Berlusconi. Ma l’alternativa come governo delle "larghe intese" è una formula credibile e appetibile?

Si ha l’impressione che la strategia alternativa a Berlusconi ricalchi lo scenario dell’"unità nazionale" degli anni Settanta e cioè il consociativismo. In questa direzione si muove anche il “terzo polo” montezemoliano. Ma sia da parte sindacale, a cominciare dalla Cisl, sia da parte imprenditoriale, a cominciare dal vertice della Confindustria, tutela del posto di lavoro e degli investimenti non sembrano puntare sul neoconsociativismo.

Tagliata la corda con il passato neofascista si è mosso incorporando in modo sbiadito idee di democrazia liberale e di economia di mercato. È del tutto mancata una nuova identità e Fini nel corso degli ultimi dieci anni è andato sostanzialmente a rimorchio del berlusconismo. Non solo. Quando negli ultimi tempi ha voluto recuperare spazio e visibilità rispetto a Berlusconi ha peggiorato la confusione nel mondo ex An in quanto lo ha fatto cercando di mettersi "più a sinistra" di Berlusconi.

D’altra parte lo stesso Bersani nel momento in cui si è candidato personalmente alla futura guida del governo ha azzerato il disegno dalemiano di trovare un nuovo Prodi che desse vita a un’alternativa non secca di sinistra contro Berlusconi. Anche le polemiche sull’informazione richiederebbero più misura. La sinistra che si fa cavalcare dai conduttori tipo Santoro, Lerner, Floris, Annunziata, ecc. assume agli occhi dell’elettorato un volto molto aggressivo e catastrofista. Avendo nel merito completamente torto.

Proprio un recente studio dell’Osservatorio di Pavia che paragona l’informazione dei telegiornali pubblici nell’Unione Europea dimostra che la Rai è la tv di Stato che dà maggiore spazio: a) alla politica, b) all’opposizione, c) alle divisioni in seno alla maggioranza (già prima della polemica di Fini).

 

In realtà la “partita” è oggi determinata da scelte sostanziali e alla luce del sole che ruotano intorno alla capacità di affrontare la situazione critica. Le richieste di Fini di maggiore collegialità, democrazia, partecipazione, condivisione delle scelte tra maggioranza e opposizione, ridimensionamento del capo del governo e del ministro dell’economia sono davvero "popolari"?

Bene o male in situazioni di emergenza il leader politico che assicura maggiore decisione e coerenza è più accattivante. Il “premier-padrone” che secondo l’opposizione è neofascismo non è mal visto dall’elettorato quando ci si trova in situazioni di emergenza economica. I
l rifiuto di Berlusconi di avere correnti non è tanto un problema di insofferenza personale quanto soprattutto di tenuta elettorale. Un Pdl diviso, un premier contestato e smentito, disegni di legge e provvedimenti governativi criticati e svalutati dall’interno e in seno allo stesso vertice del partito di maggioranza relativa possono causare un crescente danno elettorale.

Giusto o sbagliato, se Berlusconi è in grado di prospettare una leadership più credibile di quella di Fini-Montezemolo e Bersani-Di Pietro agli occhi di imprenditori, sindacati e mercati internazionali allora può anche – paradossalmente – uscire dal Pdl.

Decisivo è però il mantenimento di un rapporto costruttivo con il Quirinale. È sbagliato considerare il Presidente della Repubblica come il "padre nobile" dell’opposizione, il "conte zio" del Pd. Preoccupazioni e obiettivi che trasmette la sua figura sono espressione di un mondo trasversale e non immediatamente incanalabile in uno schieramento o partito. La "coabitazione" con Fini è dannosa, ma con Napolitano è oggi necessaria.

Leggi anche

SCENARIO/ 1. Bechis: Berlusconi, due anni nel caos ma può essere un'occasione...SCENARIO/ F&G, la nuova sigla dello scontro tra Fini e BerlusconiSCENARIO/ Che cosa cambia con la "pace armata" tra Berlusconi e Fini?