La difficile situazione politica che si è determinata per l’uscita dei finiani dal gruppo parlamentare del Pdl ha causato – come prima problematica istituzionale di non facile soluzione – la questione delle invocate dimissioni del capo della “secessione” da Presidente della Camera. Dopo essere rimasto in bilico tra il suo ruolo istituzionale (il Presidente dell’Assemblea parlamentare è eletto a maggioranza assoluta dei componenti della camera di appartenenza e, una volta eletto, assume la veste di garante imparziale del buon funzionamento della stessa) e la posizione politica presa, in contrasto con gli accordi preelettorali, Fini è rimasto sul suo scranno, complice il fatto che non esistono per questa carica dimissioni che non siano volontarie.
Ora è la volta del Presidente della Repubblica ad entrare nell’occhio del ciclone. Dopo qualche schermaglia con un Governo che non gode più della maggioranza parlamentare (almeno ufficiosamente), Napolitano ha abbandonato i toni concilianti da intervista per affidare ad un comunicato stampa ufficiale la sua intenzione di interpretare fino in fondo il ruolo che la Costituzione del 1948 gli affida, avendogli conferito il potere di nomina dell’Esecutivo (da un lato) nonché quello – ben più importante in questo difficile momento politico – di sciogliere le Camere o, simmetricamente, anche quello di non scioglierle. Il che può essere letto come un tentativo di spingere per una conciliazione tra i contendenti della coalizione al governo ma anche – e qui sta il nodo problematico – per un eventuale governo tecnico.
Che cosa si intenda con questa espressione è tutto da definire. In sé trattasi di espressione priva di significato: un governo è sempre tecnico (nel senso di una compagine di persone che dovrebbero intendersi delle materie affidate alla loro prudente gestione) ma è anche sempre e soprattutto “politico”, non foss’altro per il fatto che per governare ha bisogno dell’appoggio della maggioranza del Parlamento.
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Questo è vero a maggior ragione oggi, un oggi che sul piano istituzionale è caratterizzato, rispetto alla Prima repubblica, da tre elementi: un nuovo sistema elettorale (a tappe successive, dal 1994 ad oggi, ci si è mossi con alterne vicende verso un sistema maggioritario), un nuovo sistema dei partiti, ora tendenzialmente bipolare – cosicché la coalizione che partecipa alla competizione elettorale indica nel proprio leader il futuro potenziale capo del governo – ma, per terzo, un disegno costituzionale rimasto ancorato alla forma di governo parlamentare, con poteri di mediazione tra governo e parlamento affidati al Presidente della Repubblica.
Invocare oggi un governo tecnico può allora essere letto come il tentativo di suggerire la necessità di evitare lo tsunami di nuove elezioni oppure come un indizio, per quanto labile, della volontà di smentire la volontà popolare così come si è espressa nelle ultime elezioni, con una chiara indicazione della maggioranza vincente e del suo leader come capo dell’Esecutivo, e di affidare ad altri il ruolo di Presidente del Consiglio.
Per il Presidente della Repubblica, muoversi con prudenza ma anche con fermezza in questo insieme composito di conflitti e di tensioni non è certo agevole: può (e forse anche deve) indicare a tutti il valore della stabilità, spingendo la maggioranza verso una ricomposizione dei propri dissidi; può anche – eventualmente – ricordare come un “governo tecnico” possa essere una delle possibili soluzioni (posto che il sistema politico riconosca e dia attuazione a questa possibilità), ma è bene che non si spinga oltre: entrare di rincorsa a ribadire la proprio autonomia decisionale (vera solo in una accezione meramente formale), lasciar anche solo supporre di voler difendere la stabilità di governo anche a costo di sacrificare le scelte compiute dal popolo sovrano, non è cosa che contribuisca a pacificare gli animi e a ricondurre a ragione gli attori politici oggi in uno stato di pesante sovreccitazione.
Per non parlare della scelta, ancor più problematica, di sventolare il fantasma dell’ impeachment quale unica ed ultima forma di relazione tra la realtà dei rapporti politici (leggasi il governo in carica) e la forma costituzionale del sistema di governo parlamentare (e dei poteri che esso affida al Presidente della Repubblica), forma che, piaccia o no, ormai sta cambiando di segno.