Nella sua “controffensiva” di governo di questi giorni Berlusconi ha parlato di riforma costituzionale per il Csm, di lodo per le alte cariche, di norme sulla ragionevole durata del processo, di intercettazioni. Temi su cui la maggioranza cerca una via d’uscita dal vicolo cieco in cui l’ha cacciata la dialettica interna con la componente finiana, osserva Luciano Violante. Difficile che a queste condizioni si possa parlare di riforme, dice l’ex presidente della Camera, oggi al Meeting di Rimini per un incontro sul tema «Giustizia sarà fatta?».



 

Presidente Violante, qualcuno di questi punti incontra la disponibilità del Pd?

Mi pare francamente difficile aprire un confronto serio su quelle proposte, perché non mi sembrano destinate ad un incontro tra maggioranza e opposizione: più che proposte di governo, sono vincoli che il presidente del Consiglio pone a componenti del centrodestra e risentono della dialettica interna a quello schieramento. Il processo breve è un argomento interessante, sul resto occorre vedere come quelle proposte saranno tradotte.



Condivide la norma transitoria?

No. Ma non condivido nemmeno l’impostazione del processo breve, perché i tempi del processo sono molto diversi da Corte d’appello a Corte d’appello e la durata media dei processi in sé non dimostra proprio nulla. Mettere una mannaia per tutti i quanti i processi è inaccettabile: si possono anche stabilire per legge tempi più brevi, ma se non si fa nulla per modificare le strutture si rischia di condannare all’ingiustizia la metà circa della popolazione italiana che è sotto processo.

Torniamo alla battaglia sulle intercettazioni. Tutti sono concordi nel criticare le indebite intromissioni della stampa nella vita privata, ma se il legislatore intende regolamentare la materia si grida all’attentato contro la libertà di stampa. Come spiega tale reazione contraddittoria?



Sono state violate – non solo da parte dell’informazione – moltissime regole, per esempio nel divulgare conversazioni riguardanti persone che sono risultate del tutto estranee ai fatti. Ma dire, come faceva il testo originario, che non si può dare notizia di un arresto è una cosa che accadeva nei regimi sovietici e paramilitari del Sudamerica, non nei regimi democratici. Mi pare che francamente si sia perso il senso della misura. Ho poi l’impressione che quel progetto di legge sia andato via via cambiando, e mi chiedo se oggi sia davvero una priorità. Per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia a mio avviso non lo è. 

In questo bipolarismo al calor bianco è possibile secondo lei conseguire un self-restraint del potere giudiziario, per limitare gli eccessi della magistratura nei confronti del personale politico?

 

Guardi, questo è un tema che non riguarda soltanto l’Italia ma l’intero mondo civile occidentale. All’inizio del 2010 la Corte suprema Usa ha riscritto le regole sul contributo delle aziende alle campagne elettorali penalizzando fortemente Obama e i democratici, e la reazione di Obama verso la Corte è stata molto forte. Altri esempi non mancano: la stessa cosa è accaduta in Francia per una legge della maggioranza che fa capo a Sarkozy. Il punto è questo, che nei sistemi che prevedono le corti costituzionali il primato non è più della legge, ma della costituzione.

 

Questo in pratica cosa comporta?

 

Che le corti guardano a che le leggi siano conformi alle costituzioni proprio per evitare gli abusi delle maggioranze politiche. Questa teoria è nata negli Stati Uniti alla fine dell’800 ed è diventata una teoria del mondo civile.

 

Ammetterà che si pone un problema serio: dove sta la sovranità in questi sistemi? Nelle maggioranze scelte dai cittadini o nella giurisdizione che non risponde ai cittadini?

 

Il fatto è che oggi le magistrature fanno parte della governance dei paesi democratici: accade negli Stati Uniti, accade in Francia, accade in tutti i sistemi civili avanzati. Chi esercita il potere politico deve comprendere che la democrazia si fonda sulla separazione dei poteri, ma che esiste un potere che può controllare gli abusi della politica. Questo non aumenta il potere delle magistrature, aumenta la loro responsabilità. Naturalmente chi ha l’idea che il potere politico sia assolutamente sciolto da regole è fuori di questa logica.

 

Lei in un’intervista al sussidiario ha affermato: «siamo di fatto passati da un sistema a tre poteri a un sistema a due: governo e magistratura. Ma poiché sono due poteri, o c’è la diarchia o c’è lo scontro». L’ideale sarebbe comporre questa frattura, ma come?

 

L’ideale sarebbe dare forza all’altro potere, e cioè al Parlamento, perché è inevitabile che quei due poteri confliggano. E il loro conflitto può essere autodistruttivo per il sistema politico, perché ciascuno dei due ha i mezzi per abbattere l’altro. Il vero problema è che oggi non esiste più il Parlamento come luogo della rappresentanza generale degli italiani, perché questo sistema elettorale lo ha soppresso: al suo posto c’è un assemblea espressione dei gruppi di comando dei partiti politici, di ogni colore. In mancanza di un terzo soggetto che fa da mediatore, quel conflitto è irrisolvibile.

 

Non a caso si parla sempre più di adattamento delle regole formali alla costituzione «materiale»: è d’accordo?

 

 

Chi vuole cambiare la Costituzione non deve far altro che presentare un progetto. Si vogliono introdurre nel sistema costituzionale italiano meccanismi di tipo plebiscitario? Lo si proponga e lo discuteremo… Ma non si può dire che creandosi di fatto una situazione inedita, essa deve valere contro le regole scritte; direi anzi che le costituzioni acquisiscono il loro valore quando sono messe in discussione da presunte situazioni di fatto, ancor più se sono situazioni di crisi.

 

La corruzione è tornata a riempire le pagine della cronaca. È una nuova Tangentopoli?

 

No, perché Tangentopoli fu che i partiti o i vertici dei partiti prendevano tangenti. Il dato essenziale di oggi è che gli imprenditori si creano una loro «scuderia»: comprano il politico facendogli favori e chiedendo in cambio contropartite. Si è rovesciato il meccanismo.

 

Come deve fare il paese per lasciarsi alle spalle questa stagione e possibilmente fare le riforme?

 

La prima cosa da fare è cambiare la legge elettorale: dare ai cittadini la responsabilità della scelta dei propri rappresentanti e dare al Parlamento la responsabilità di rappresentare la nazione, cosa che adesso non avviene. La seconda invece ci porta un po’ indietro, al momento dello scontro tra Berlinguer e Craxi. Berlinguer diceva che le cose non vanno perché i partiti sono corrotti e vanno profondamente cambiati, Craxi non era d’accordo e pensava che a non funzionare fossero le istituzioni, proponendo di cominciare da quelle.

 

Lei sta con Berlinguer o con Craxi?

 

Berlinguer non capì che Craxi aveva in parte ragione, e Craxi non capì che Berlinguer aveva in parte ragione. Se avessimo fatto riforma dei partiti e riforma delle istituzioni, oggi non saremmo a questo punto. In realtà la precedenza dovrebbero averla i partiti: occorre che diventino davvero democratici, che ricostruiscano un rapporto con i cittadini ispirandosi ad un pensiero strategico, invece che sintonizzarsi su una lunghezza d’onda limitata al telegiornale delle 20.

 

Meglio i partiti della Prima repubblica?

 

Mi limito ad osservare che questo organismo che si chiama partito, e che oggi non risponde più ai caratteri del partito che prevede la Costituzione, è un soggetto che non riesce più a far maturare principi di etica pubblica nella società italiana. Resta un individualismo arrembante che gioca soltanto sull’interesse personale.

 

«L’unica cosa che la tiene in piedi – ha detto su questo giornale Piero Ostellino della sinistra – è il gridare al tiranno. La sinistra non ha identità, non ha idee. In realtà essa non c’è più: è scomparsa». C’è qualcosa di vero in questo giudizio?

 

 

Non mi pare che le cose stiano in questi termini. La sinistra è indubbiamente in difficoltà e la causa più importante della sua crisi sta nella spinta individualistica oggi dominante, mentre il referente ideale della sinistra è da sempre quello dei blocchi e delle alleanze sociali, che sono diventati difficilissimi da costruire. E poi non parliamo più di quel «caro estinto» che è la giustizia sociale… La questione vera è che la sinistra dovrebbe pensare in chiave strategica, ma ha smesso di farlo. Dando una grossa mano alla destra. Tutto questo crea l’impressione che ha avuto Ostellino.

 

«Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore», dice il titolo del Meeting. Il cuore dell’uomo è animato in tutti i tempi da un’insopprimibile e costitutiva esigenza di giustizia. Non crede che abbiamo ridotto la giustizia alla legalità?

 

È il problema dell’imperialismo giuridico, cioè della pervasività del diritto: sono venute meno le regole dell’etica pubblica, religiose, morali e politiche, e l’unica regola che vige è quella giuridica. Questo produce l’effetto distorcente che lei denuncia nella domanda. Se le parti politiche non rimettono la responsabilità al centro dell’etica pubblica, è inevitabile che il diritto invada ogni sfera dell’agire umano. E a soffrirne sarebbe proprio quel desiderio infinito di giustizia che lei ha citato.

 

(Federico Ferraù)