Il “Generale Agosto” ha contribuito a calmare gli animi: lo scioglimento delle Camere ha perso quota e l’ipotesi principale è quella di ricompattare la maggioranza.
A premere su Berlusconi per bloccare l’escalation della destabilizzazione è la generale preoccupazione nel mondo imprenditoriale e finanziario, e tra le forze sindacali più responsabili, circa il fatto che l’Italia non possa permettersi “il lusso” di un periodo di non governo, di crisi, instabilità e sostanziale vuoto decisionale determinato da una “politica politicante” costellata da rivalità e ambizioni personali, dove le motivazioni politiche sono ricercate dopo le rotture. Se infatti sul piano della crisi economica il peggio sembra scongiurato, si è ancora di fronte a prove decisive: l’Europa subisce comunque un ridimensionamento sulla scena dell’economia mondiale ed al suo interno è in corso un riposizionamento con paesi che salgono e altri che scendono. Nei prossimi mesi la competitività del “sistema Italia” ha non pochi ostacoli da superare per evitare declassamenti o emarginazioni.
Da parte sua Fini ha solo da perdere andando alla verifica elettorale. Su quale posizione politica l’affronta? Attaccando Berlusconi da destra, facendo appello a identità e valori negli ultimi anni rinnegati e annacquati avendo contro i famigliari di Almirante e di Mussolini? Attaccando dal centro, mettendosi dietro a Casini e Rutelli in nome di identità e valori cattolici da Fini in questi anni contestati? Facendo “cartello” con il Fronte popolare antiberlusconiano delle sinistre?
La scelta del non voto però ha una base solida se non diventa a sua volta una prospettiva di non governo, di governabilità alla giornata insidiata da logoramento e immobilismo. Certamente Fini non è in grado di assicurare un appoggio per un governo Berlusconi che abbia successo. Egli si è ormai avvitato in una posizione di rancorosa e vendicativa destabilizzazione e nessuna sua esternazione in questi mesi ha avuto una nota distensiva.
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La difesa che il Presidente della Repubblica ha fatto di Fini si basa sul far finta di non sapere che il Presidente della Camera ha fatto una conferenza stampa bollando il Capo del governo come antidemocratico. Si tratta di una difesa che fa temere che la terza carica dello Stato, prima di muovere all’attacco della quarta carica, abbia preventivamente informato la prima non venendone dissuaso. Che Fini sia nelle condizioni personali e politiche di concorrere alla stabilità istituzionale è ormai da escludere.
A sua volta anche Napolitano comincia a dare segni di nervosismo e, a differenza del passato, a non svolgere sempre un ruolo di moderazione.
A rendere difficile la strada di una operosa stabilità alternativa al voto sono comunque tre fattori di fondo. Il primo è rappresentato dal fatto che il Pdl da soggetto elettorale non è diventato soggetto politico. La dimensione carismatica non è sufficiente. Quando Antonio Gramsci scriveva che “la preparazione dei successori è altrettanto importante a quel che si fa per vincere” non era un’espressione poetica. Se si rimane in una dimensione del “dopo di me il diluvio” si creano le condizioni per essere sommersi dal diluvio nell’immediato. Occorre dare prospettive certe di futuro se non si vuole avere dietro le proprie spalle il crescere di timorosi, opportunisti e trasformisti. Oggi il Pdl è un conglomerato di accampamenti e fondazioni che “cazzeggiano” sul dopo Berlusconi.
La sinistra che sostiene il non voto dovrebbe concorrere ad un confronto politico e parlamentare sui contenuti delle misure legislative e su come dare maggiore competitività al “sistema Italia” in alternativa alla modernizzazione tremontian-berlusconiana. Al contrario la sinistra sembra invece sempre più disabituata al fare politica e si è adagiata passivamente sul Berlusconi “pericolo per la democrazia”, disertando così proprio il terreno della rimonta per via democratica: è su una posizione “attendista” ovvero in attesa di “scosse”, di interventi risolutori per via giudiziaria ed extraparlamentare.
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Infine c’è Bossi che ormai non fa mistero di preparare un proprio “dopo Berlusconi”. Ostenta una neoausterità quasi berlingueriana, parla bene di Napolitano, si vanta di non avere problemi con la magistratura, insulta i vertici del Pdl. Al Nord dopo aver ottenuto la leadership del centro-destra in Veneto e Piemonte punta a indebolire quella non sua della Lombardia. Insomma punta a diventare partito di maggioranza relativa del Nord inseguendo il modello del catalano Pujol che da Barcellona con il suo “pacchetto” di parlamentari autonomisti era determinante nel Parlamento nazionale sia a destra sia a sinistra appoggiando ora il socialista Gonzales ora il popolare Aznar.
In questo quadro l’elemento nuovo e determinante può essere rappresentato dalle componenti cattoliche dell’opposizione, di fronte ad una crisi in cui emergono contraddizioni e paradossi della Seconda Repubblica edificata sul giustizialismo.
Non è detto che si ripresenti nuovamente una occasione come quella presente, in cui i parlamentari cattolici potrebbero svolgere un ruolo determinante per fermare lo sbullonamento istituzionale determinato da una prassi maggioritaria che confligge con l’architettura proporzionalistica, snaturando le maggioranze qualificate richieste per l’elezione degli organi di garanzia.
In assenza di fatti nuovi che possano garantire una seria prospettiva di governabilità, la via d’uscita tornerebbe ad essere quella elettorale, con una ragionevole intesa finale tra Napolitano e Berlusconi: una nuova legge elettorale che soddisfi il Quirinale in cambio del presidenzialismo desiderato da Berlusconi.