Nell’intervista rilasciata sabato al Corriere della Sera il ministro Alfano ha ribadito ciò che aveva anticipato all’incontro “Giustizia sarà fatta?” tenutosi al Meeting di Rimini giovedì scorso, in cui era relatore unitamente a Luciano Violante. Il disegno di legge sul processo breve sarà tra i cinque punti prioritari dell’azione di governo sui quali il premier chiederà il sostegno della maggioranza e sul quale il ministro ha annunciato che è pronto ad investimenti straordinari nel sistema giustizia, concordando con i magistrati dei principali uffici giudiziari le scelte organizzative più efficaci per adeguare la macchina giudiziaria alle nuove esigenze, appunto, del processo breve.



Il ministro, quindi, ha fatto un passo in più rispetto al mero intendimento di proseguire e sostenere l’iter parlamentare del disegno di legge in questione: ha promesso un robusto stanziamento di fondi destinati a tale scopo. Vediamo se ciò può essere ritenuto sufficiente.

La cronica lentezza dei processi penali, dall’inizio delle indagini fino alla sentenza definitiva, dipende da molteplici e complessi fattori. Pensare che il processo penale possa accorciare i propri tempi perché ciò viene previsto per legge è pura demagogia; ipotizzare fondi straordinari che possano adeguare gli scarsi e obsoleti mezzi di cui l’apparato giudiziario dispone, è certamente un primo passo per dare concretezza alla legge in cantiere: ma certamente non basta.



Accanto a ciò, infatti, è indispensabile intervenire sui meccanismi processuali, eliminando il più possibile quelli che determinano il problema che si vuole risolvere.

Ne cito solo alcuni a titolo di esempio: andrebbe abolita l’udienza preliminare – una sorta di quarto giudizio, per lo più formale, che ritarda anche di un anno circa l’inizio del dibattimento – estendendo il sistema della citazione diretta a giudizio e utilizzando il GUP solo per i riti alternativi (abbreviato e patteggiamento); pensare un sistema di notifiche via e-mail anche per il processo penale, come si sta sperimentando in quello civile (magari rendendo obbligatoria la domiciliazione almeno presso il difensore di fiducia, munito di indirizzo di posta elettronica); imporre un termine perentorio, di pochi mesi, al pm per esercitare l’azione penale dopo la chiusura delle indagini: pare, infatti, che una delle principali cause di ritardo dei processi penali sia la giacenza degli stessi (per molti mesi se non per anni) negli uffici dei pm che, esaurite le indagini, non provvedono a chiedere l’archiviazione o il rinvio a giudizio.



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Ovviamente, si tratta di sintetici suggerimenti cui altri potrebbero e dovrebbero essere pensati se veramente si vuole adeguare la macchina processuale ai nuovi tempi imposti dal disegno di legge: ma nulla di tutto ciò si trova nelle proposte del governo; sarebbe opportuno, quindi, aprire subito una riflessione sul punto, prima di rischiare di ottenere l’effetto contrario: aumentare la già patologica incapacità del nostro sistema di giungere al termine dei processi.

 

Che si voglia intervenire sulla ragionevole durata del processo è una preoccupazione seria e largamente condivisibile, ma il vero nodo politico è la norma transitoria prevista, su cui rischiano di giocarsi la prosecuzione della legislatura piuttosto che le elezioni anticipate. Come avevo già scritto in un precedente articolo, la norma transitoria – che prevede l’estinzione dei processi in corso per reati fino a 10 anni di reclusione, commessi entro il 2 maggio 2006 – produce di fatto gli stessi effetti di un’amnistia che, proprio per la sua delicatezza, è un provvedimento che deve essere preso a maggioranza qualificata (due terzi del Parlamento) e non è mai stata concessa per reati superiori ai 4 anni di pena edittale massima: nel nostro caso, con legge ordinaria, si concede il medesimo beneficio e per reati fino a 10 anni di reclusione.

 

Se si pensa, inoltre, che la legge sul processo breve è chiaramente proiettata a modificare negli anni futuri, accelerandolo, il sistema processuale, non si comprende la necessità di tale norma transitoria e, soprattutto, la sua eccessiva espansione. È legittimo il sospetto che essa abbia come reale finalità quella di estinguere i processi a carico del premier, che in questi anni hanno avvelenato il rapporto tra politica e magistratura: ciò spiega la ferma contrarietà a tale norma, non solo dell’opposizione, ma di parte della stessa maggioranza.

Se, come sembra, la possibilità di proseguire la legislatura ed evitare elezioni anticipate (che sarebbero deleterie per il Paese in questo contesto di crisi che urge stabilità per permettere la ripresa) passa attraverso l’accettazione della norma transitoria e del suo scopo reale, si prenda questa decisione politica e, per il bene del Paese, si prosegua nel cammino riformatore di cui c’è così bisogno.

 

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Un’ultima osservazione si impone: come mai si è arrivati a questo punto di conflitto da imporre soluzioni così irragionevoli? Una provocazione interessante è stata fatta dal presidente Violante nel citato incontro a Rimini: a suo dire l’inevitabile scontro autodistruttivo tra governo e magistratura è dovuto alla debolezza del parlamento come terzo soggetto mediatore. Debolezza conseguente all’attuale sistema elettorale, per cui il parlamento non è il luogo della rappresentanza generale degli italiani, in quanto i parlamentari vengono imposti dai vertici dei partiti politici.

 

A ben vedere, questa è l’obiezione che non ha permesso in questi anni neppure di iniziare un sereno dialogo sull’opportunità di reintrodurre l’immunità parlamentare abrogata nel 1993: data che segna l’inizio dello scontro fra poteri cui ancora oggi assistiamo.

Il Meeting quest’anno, ponendo l’accento sul cuore – quella “strana” natura che ci spinge a desiderare cose grandi – ha fatto emergere come sia diffuso un reale desiderio di cambiamento: c’è bisogno di questo cambiamento nei rapporti tra i politici e tra la politica e le istituzioni; c’è bisogno di questo cambiamento nel pensare ed amministrare la Giustizia.