Siamo nelle mani del “Generale Agosto”. L’imminente sospensione dei lavori parlamentari impone infatti una pausa di riflessione all’insieme dei leaders politici che improvvidamente sono saliti sul ring del pugilato.
«La politica sarebbe il mestiere più facile del mondo se non consistesse nel prevedere le conseguenze delle proprie decisioni» sentenziava Pietro Nenni nel condannare gli antagonismi che avevano provocato l’ennesima scissione socialista nel luglio 1969 e Bettino Craxi, avendo già deciso di fronteggiare la nuova stagione politica stando in minoranza, commentava: «È successo quel che non doveva succedere. Succederà quel che non può non succedere».
In quel caso, nel partito socialista unificato che dopo due anni si scioglieva, da entrambe le parti si era convinti di vincere (gli uni ritenevano di avere l’elettorato con loro e gli altri di essere determinanti in Parlamento) e poi si ritrovarono ad essere subalterni sia a destra sia a sinistra.
Il fatto che Berlusconi e Fini pur mantenendo un atteggiamento di reciproco disprezzo non smentiscano chi si è attivato per rimettere insieme i cocci e tenti di rinnovare una maggioranza che eviti le elezioni significa che entrambi siano consapevoli di aver sbagliato qualche calcolo e di trovarsi in una situazione in cui, sia l’uno sia l’altro, contano molto meno nel Paese e nel Parlamento rispetto alla settimana scorsa.
Certamente lo scenario attuale non corrisponde alle loro previsioni e intenzioni. Errori evitabili li hanno commessi entrambi.
Berlusconi ha stretto un rapporto a due con Bossi senza aver stabilizzato la fusione che aveva fatto nascere il Pdl: ha inutilmente oscurato e provocato Fini e messo in sospetto e agitazione non solo il Sud, ma anche il Centro Italia.
Fini si è messo a ricercare uno spazio politico-parlamentare determinante prima riposizionandosi “a sinistra” (voto agli immigrati, eutanasia, ecc) e poi capitanando una scissione parlamentare “da destra” con sventolio sui giornali delle foto con Almirante ed il raffazzonato raduno di una comitiva non precisamente per visita delle sinagoghe.
Oggi se si va alle elezioni Berlusconi le deve affrontare nel centro-sud come “subalterno” a Bossi e Fini come traditore della destra e “tirapiedi” dei comunisti.
Da parte loro i leader dell’opposizione non si presentano con le carte in regola e il vento in poppa.
L’Italia sta uscendo meglio di altri (se non di tutti gli altri) paesi dalla crisi economico-finanziaria. Non solo, ma si sta rafforzando ciò che la sinistra ha sempre disprezzato e avversato, mentre le “corazzate Potemkin” del Pd (vedi Unicredit) non sono più in grado di schierarsi (in tutti i sensi) per la campagna elettorale.
Un “fronte popolare” Vendola-Di Pietro- Casini non è praticabile né Fini può spiegare di non avere accettato la leadership di Berlusconi per fare il comprimario con Rutelli dietro a Casini. Quale spazio e prospettiva “moderata” può avere il cosiddetto “terzo polo”? Né la immaginata discesa in campo di leaders dell’imprenditoria può cambiare le carte in tavola. Bisogna fare attenzione a parlare di “poteri forti”. Una cosa era Enrico Cuccia, ben altra è Luca di Montezemolo.
Inoltre le ragioni di distinzione di Fini da Berlusconi erano concentrate (come ha spiegato lui nei suoi recenti libri e la sua Fondazione “FareFuturo” nelle varie iniziative) proprio nel rigetto di ogni richiamo ai valori di matrice cattolica. Fini, come Sarkozy contro Chirac, ha infatti cercato di dipingere una nuova destra più “moderna” che in Italia significa, secondo lui, meno cattolica confliggendo però così sia con Casini sia con Rutelli che hanno invece messo sotto accusa “l’edonismo berlusconiano” sperando in un avallo d’Oltretevere.
E quindi? Quando lo spazio sfugge ai leaders politici la parola passa ai “contropoteri”. Il primo è il Quirinale. Ormai il Presidente della Repubblica non è più un garante, un potere neutro, ma un soggetto che rivendica un ruolo analogo a quello della Repubblica presidenziale francese e cioè siamo in pieno regime di “coabitazione”.
La rottura con Fini e la sottovalutazione degli scissionisti ha messo Berlusconi in maggiore difficoltà nei rapporti con il Colle. Quando si va a una prova di forza sottovalutando i rapporti di forza certamente non ci si rafforza. E la strada delle elezioni anticipate non è semplice. Formalmente il Capo dello Stato deve prima acquisire il parere dei due presidenti delle Camere e quindi può usare un Fini che paventa il riscontro elettorale (da solo non supera lo sbarramento e confluendo con gli ex democristiani vale ben poco).
Ma a parte lo scoglio degli incarichi “esplorativi” che l’attuale regime costituzionale comunque gli impone, Giorgio Napolitano è notoriamente contrario a sciogliere le Camere con l’attuale legge elettorale. Si dirà: come si permette? Ebbene: si permette, punto e basta perché nessuno è in grado di fiatare in proposito.
Quindi le scelte che il Quirinale prospetterà a Berlusconi sono due: o un governo Berlusconi che va alle elezioni dopo aver concordato con il Pd una nuova legge elettorale oppure un governo “neutro” come si è sempre fatto presieduto da una personalità nominata dal Presidente della Repubblica a suo capriccio (potrebbe anche non essere un politico o un parlamentare e nessuno potrebbe eccepire). I precedenti che “coprono” Napolitano nella defenestrazione preelettorale di Berlusconi sono infatti la totalità dei casi.
Certamente Napolitano non può muoversi senza prudenza. Ricondurre la sua vocazione al passato comunista è riduttivo e fuorviante. Siamo in presenza di una personalità in cui confluiscono preoccupazioni extraparlamentari, ma non certo irresponsabili e sovversive.
Napolitano che ha passato la vita sul terreno economico e internazionale è persona ben lungi dall’assumersi la responsabilità di scaraventare l’Italia come uno straccio al vento in uno scenario imprevedibile di crisi economica mondiale. Il “generale Agosto” molto probabilmente avrà quindi le sembianze del “generale Napolitano”: sia per un “patto” al fine di proseguire la legislatura sia per andare consensualmente alle elezioni.
Certamente questa crisi politica sanziona il fatto che in Italia si è passati dalla partitocrazia alla cortigianeria. Ormai per determinare le svolte politiche, alterare gli equilibri parlamentari, disegnare alleanze elettorali è pura formalità e tempo perso mettere insieme un partito.
Il sistema dei processi decisionali è articolato in una diversa forma di accampamenti. Che cosa è il proliferare, a destra a sinistra e al centro, di tutte queste Fondazioni se non l’articolazione del paesaggio politico italiano secondo un sistema non di partiti ma di corti con le tradizionali figure del “consigliere”, della “bella donna”, dell’”uomo di spada” e di quello che si occupa della “robe”?
Certo non siamo ai tempi dell’assolutismo e quindi in un quadro di pluralismo abbiamo di fronte una scena non di indiscussi “sovrani conservatori”, ma di rissosi “capi carismatici” che vanno alla conquista di spazi, regni e imperi.
Non è detto che ciò sia un male o che prima fosse meglio. Basta rendersi conto che insistendo nella “soluzione finale” della politica italiana attraverso la via giudiziaria lo sbocco non è stato né Che Guevara né Madre Teresa di Calcutta, ma tanti Paperon de’ Paperoni.
Il recente accordo per il rinnovo del vertice del Csm patrocinato da Napolitano tra Berlusconi, Bersani e Casini proprio nel momento più acuto della crisi può ripetersi? Si aprirebbe una via d’uscita che può promettere maggiore novità e legittimità rispetto al ricorso alle urne.