Il chiasso davanti alle parole, il fumo davanti alle scelte per il Paese ma soprattutto la tattica, tanta, troppa, davanti alla strategia. La politica italiana di queste ore è peggio che un teatrino sgangherato. Si rincorre il fantasma del voto anticipato, in tanti lo evocano e lo vorrebbero, ma poi nessuno, per ora, ha il coraggio di staccare davvero la spina al governo. La ragione è molto pratica.
Il piatto è talmente intricato da confondere vantaggi e svantaggi di una crisi al buio. Il vorrei ma non posso è forse la fotografia più adatta a descrivere queste settimane di palazzi romani. Gianfranco Fini vorrebbe rovesciare il tavolo per imboccare un’altra idea di destra italiana, ma deve abbozzare e cautelarsi per non passare dalla parte del torto davanti agli italiani, non restare col cerino in mano, reo di avere infranto il patto con gli elettori, peccato supremo; Silvio Berlusconi vorrebbe andare alle urne immediatamente e rifarsi una maggioranza nuova di zecca senza più il fardello dei finiani ingrati, ma è frenato da sondaggi contrastanti che non gli garantiscono i numeri al Senato, gli restituirebbero un sud gambe all’aria senza più un egemonia granitica e un nord in cui si accentuerebbe il travaso interno verso la Lega.
Risultato: anche tornando a palazzo Chigi, regalerebbe la golden share al Senatur, sicuro. Così si acconcia suo malgrado al negoziato a oltranza con la “legione straniera”, tentando qualche pseudo abboccamento con esponenti “selezionati” dell’Udc per ricostruire un simulacro di maggioranza e sfangarla, arrivando dritto al 2013. Un vorrei ma non posso è anche quello di Umberto Bossi che crescerebbe sì in voti ma rischierebbe di trovarsi meno decisivo in un nuovo Parlamento dove i rapporti di forza non sarebbero così sbilanciati a destra.
E poi dovrebbe cominciare daccapo la parabola del federalismo: spiegarlo ai militanti è un conto, al voto di opinione che lo ha scelto all’ultimo giro ed è meno ipnotizzabile, è più difficile. Allora non resta che alzare il prezzo, tra pernacchio e dito medio, e far ricadere la colpa sugli altri, eventualmente guadagnando la miglior posizione in caso di elezioni. Infine un vorrei ma non posso è anche quello di Giulio Tremonti, silente e ispirato per tutta l’estate, quasi non facesse parte di questo esecutivo ai materassi, che pencola tra la fedeltà adamantina al proprio capo e l’ambizione, nemmeno recondita, di giocarsi in prima persona la leadership.
E’ difficile insomma capire fin dove si spinge il bluff e comincia l’arrosto. Tutti tirano la corda ma nessuno vuol spezzarla. La paura di bruciarsi prevale ancora sul rompete le righe liberatorio. Per questo si andrà a bordeggiare fino al discorso alla Camera di Berlusconi, fissato per fine settembre: è la dead line che Bossi ha concesso al Cavaliere. Per quei giorni o si ritrova un po’ di bandolo sufficiente a portare a casa il federalismo e a far camminare di nuovo questo governo, o altrimenti sarà il diluvio e qualsiasi scenario potrebbe riaprirsi: certo non il salto della quaglia bossiano, ma l’erosione del patto di ferro con Berlusconi, magari in chiave tremontiana, chissà…
Il tutto facendo, o quasi, i conti senza l’oste, cioè il Quirinale. Forse disponibile a tenere aperto uno spioncino sul voto a primavera, se la maggioranza dovesse sfaldarsi del tutto, ma di certo indisponibile ad un voto pre natalizio. La Costituzione non è un optional, il Colle non potrebbe esimersi dal fare un giro esplorativo e allora se ne vedrebbero delle belle, uscirebbero allo scoperto i vari Casini e Rutelli. Ma soprattutto facendo i conti alle spalle di un paese in apnea da troppi mesi, senza una linea chiara di politica economica, un ministro decisivo vacante da troppo tempo, e una ripresa post crisi ancora tutta da interpretare e consolidare. Più che un vorrei ma non posso, questa volta una certezza.