Il carattere straordinario della crisi attuale consiste nel fatto che tutti hanno ragione. Ha perfettamente ragione Berlusconi a chiedere nuove elezioni se viene sfiduciato in quanto il suo mandato era esplicito nella richiesta di voto di Pdl e Lega, hanno perfettamente ragione le opposizioni a ricordare che il mandato parlamentare è libero e che prima di uno scioglimento bisogna verificare se si possa dar vita a una qualche maggioranza, ha perfettamente ragione il Quirinale a rivendicare che la designazione del premier è una sua libera scelta e che, comunque, in caso di ricorso alle urne, egli può dar vita a un governo elettorale “ad hoc”, “di garanzia”, presieduto da una personalità (anche extraparlamentare) da lui incaricata.



In sostanza siamo di fronte a un ingorgo istituzionale in cui viviamo nella duplice ipocrisia che consiste nel fatto che enfatizziamo da un lato l’essere in una “Seconda Repubblica” e dall’altro l’intangibilità della Costituzione della “Prima Repubblica”. Ormai convivono, si sovrappongono e si contraddicono ben tre interpretazioni e prassi costituzionali. Siamo cioè in balìa di tre Costituzioni: “formale”, “materiale” e “di fatto”.



O si torna indietro o si va avanti. E cioè: o si ritorna al proporzionale puro o si imbocca la strada del presidenzialismo con i conseguenti adeguamenti costituzionali. Certamente non si può rimanere – per usare il titolo di un libro di Napolitano – “in mezzo al guado”.

Il passaggio dal proporzionale al maggioritario ha infatti non solo stravolto e vanificato gli istituti di garanzia che da poteri “neutrali” sono diventati “contro-poteri” (come infatti li ha definiti Giovanni Sartori evidenziando come anche un fine costituzionalista liberale per essere chiaro deve far proprio il linguaggio di un leader estremista – rosaluxemburghiano – come Lelio Basso, che così li aveva teorizzati negli anni ’50). Lo stesso Capo dello Stato che nell’Assemblea Costituente era tratteggiato come un “fannullone” oggi si trova a reggere un ruolo di invadente “coabitazione” a fianco del Capo del governo instaurando un presidenzialismo di fatto.



È così che l’insistenza di Giorgio Napolitano nel pretendere un cambiamento della legge elettorale prima di un nuovo ricorso alle urne è certamente una intromissione, ma, al punto in cui si è arrivati, è anche un suggerimento dettato da buon senso.

Andare a nuove elezioni senza alcuna modifica dell’attuale quadro politico-istituzionale non è una via d’uscita. Che cosa cambierebbe? Ammesso che la coalizione di centro-destra prevalga saremmo daccapo se non peggio. Non solo un esecutivo ugualmente assediato dai “contro-poteri” alla affannosa ricerca di “scudi”, ma anche in caso di vittoria, Berlusconi otterrebbe una maggioranza più risicata e non meno travagliata. Il pronosticato successo di Umberto Bossi non rispecchia alcun aumento di consensi al centro-destra. È in corso non uno sfondamento a danno della sinistra, ma un travaso di voti dal Pdl alla Lega in quanto il partito di Berlusconi offre un’immagine fluida e caotica mentre l’alleato è accreditato dallo stesso “premier” come il suo punto di appoggio più saldo.

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Andare alle elezioni con un partito in cui non è ancora chiaro chi ne faccia parte e comunque con il venir meno di una componente fondativa è il modo peggiore per affrontare una verifica nel segreto delle urne. Oggi il Pdl rischia di essere a sua volta percepito come un’"aziendina". Prima di chiedere lo scioglimento delle Camere Berlusconi deve ripristinare un retroterra affidabile e appetibile, creare un soggetto politico e non una offerta occasionale. È vero che le elezioni si decidono al Sud, ma un sorpasso leghista al Nord minerebbe la leadership berlusconiana sin dall’inizio della nuova legislatura.

 

Ma non è solo la “rifondazione” del Pdl a sconsigliare un precipitoso ricorso alle urne. L’ingorgo istituzionale  richiede una pausa di riflessione per ideare e concordare modifiche che ci facciano uscire dal caotico sovrapporsi e annullarsi delle tre Costituzioni – “formale”, “materiale” e “di fatto” – oggi in vigore.

 

Il nodo della giustizia, in particolare, sta diventando un’emergenza. Non si tratta di leggi “ad personam”. L’autonomia della magistratura ha come fondamento l’autodisciplina che il Consiglio Superiore della Magistratura non svolge più da molto tempo tanto che persino Luciano Violante ammette che bisogna trovare un nuovo organismo (ha proposto ad esempio un collegio formato dai presidenti emeriti della Corte Costituzionale) che riporti un minimo di tutela contro gli abusi più eclatanti. Il deragliamento giudiziario va infatti assumendo dimensioni sempre più rilevanti: finché si sancisce che in Rai possano essere cambiati solo i direttori e i conduttori di centro-destra mentre quelli di sinistra sono inamovibili siamo alle note di colore, ma quando si impone ad un’azienda che vive in un sistema concorrenziale un palinsesto a vita con orario fisso di un tipo di trasmissione e di conduttore si è fuori dalla realtà. Ma questo è niente di fronte alla sdrammatizzazione – se non depenalizzazione – degli attentati a Berlusconi e Bonanni. A ciò si aggiungono sentenze come quelle che nelle vertenze sindacali riabilitano e tutelano l’estremismo.

 

Siamo di fronte a un contagioso abbassamento della guardia di fronte al piano inclinato che si va ricreando tra estremismo parolaio, violenza fisica, prefigurazione terroristica.

Anche in questo campo si vive di retorica e di ipocrisia come quando si sostiene che le sentenze non si commentano. Si dimentica che le sentenze vengono pronunciate “in nome del popolo” e che le motivazioni sono previste non per consentire appelli e ricorsi da chi è soccombente, ma – anche nei gradi inappellabili – in quanto rendicontazione pubblica, agli occhi del popolo. I regimi in cui le sentenze si pronunciano “in nome del popolo” con il popolo che non può commentarle si chiamano regimi comunisti.

Una rivisitazione dell’equilibrio costituzionale è quindi necessaria se si vogliono rimuovere cause di fondo dello stato di crisi che fanno parlare da quasi vent’anni di “transizione infinita”.

 

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Può il Pd (che in nome dell’antiberlusconismo riedita “ammucchiate” e che soprattutto, per assicurare la candidatura di Bersani a premier scarica Casini e va alla ricerca di Ferrero e Diliberto) essere un interlocutore affidabile in questa legislatura? È difficile che il Pd concordi qualcosa con Berlusconi. In realtà proprio l’attuale legge elettorale consente a Bersani e D’Alema di trattare con la “sinistra antagonista” da posizioni di forza, di sbarazzarsi con facilità dell’ingombrante presenza dei parlamentari veltroniani e, al tempo stesso, di continuare una facile polemica elettoralistica contro il “porcellum” di Bossi e Berlusconi.

 

Anche se in modo irrituale per la Costituzione “formale”, la Costituzione “di fatto” traccia come unica via d’uscita il confronto se non tra maggioranza e opposizione, ma almeno tra Capo dello Stato e Capo del governo secondo il buon senso e cioè cercando di riportare un quadro di certezza istituzionale nel Paese ripristinando gli istituti di controllo e di pluralismo: dalla riforma del Csm a una nuova legge elettorale.