Giorgio Napolitano rompe il silenzio sulla querelle dell’estate Berlusconi-Fini e parla per la prima volta di «evoluzione benigna». Quando lo scoppio sembrava deflagrare lui si è “dato”, come dicono a Roma, ed è andato in vacanza a Vulcano. Come a dire: rinsavite e pensate a governare. E ora i fatti sembrano dargli ragione, ancora una volta. Ha un solo vero limite, il Capo dello Stato, in realtà: l’anagrafe. Ma può diventare la sua marcia in più.



Nessuno più di lui, a mio avviso, in questa fase di scontri che riempiono le pagine dei giornali ma non la pancia dei cittadini alle prese con la crisi, interpreta il comune sentire non tanto delle forze politiche in campo, quanto di quel 40 per cento di italiani che a votare, ormai, non ci va neanche più, neppure con la lettera di precetto. E, si badi bene, non si tratta più di qualunquisti o analfabeti, c’è una quota crescente di cittadini ex impegnati che proprio non si sentono rappresentati dalle attuali offerte politiche.



Ma, si diceva, la sua età può diventare l’arma in più: chi mai potrà accusarlo di lavorare per sé o per una parte politica? Né sarà facile inventarsi un dossier sui di lui (salvo a risalire all’invasione dell’Ungheria) visto che, in epoca più recente, è stato uno dei pochi in Campania a tenersi ben lontano, con rara lungimiranza, dal “regno”, poi rovinosamente decaduto, di Antonio Bassolino.

Ecco, se potessimo tentare di dare noi un consiglio a Silvio Berlusconi, a gratis e senza averne titolo (ma chi è pagato per farlo ultimamente poco ci azzecca, vedi i casi Gheddafi o Fini) noi gli diremmo di guardare più al Colle che a Montecarlo. Se al termine di un ventennio di gestione del potere (con ben tre investiture popolari, l’ultima delle quali senza precedenti) il Cavaliere vorrà finire davvero sui libri di storia, ha in Napolitano un grande alleato che – in fondo – non si aspetta altro dal suo scorcio finale di esperienza politica se non di contribuire a realizzare qualcosa di buono per ammodernare il Paese.



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E questo risultato potrà essere conseguito, proviamo a ricordarlo: o con i due terzi del Parlamento (obiettivo utopico) o con una presa di responsabilità della maggioranza assoluta del Parlamento (magari con l’Udc che si astiene), ma senza usare la clava contro il resto del Paese, altrimenti (si legga la Costituzione) la bocciatura potrebbe arrivare dopo, con il referendum confermativo, che – temiamo di averlo già scritto – finirebbe per rendere maggioranza quanto in Parlamento è stato reso minoranza con la coercizione dei parlamentari. Ed è già successo, ma solo Bossi sembra aver imparato la lezione.

 

Insomma: se si limitasse a gestire l’ordinario, Berlusconi rischierebbe di finire nella trappola di Fini, che mai gli farà cadere il governo (finché non troverà un tema spendibile mediaticamente, su cui andare alle urne) e mai lo farà galoppare spedito. Se invece l’obiettivo fosse più alto, quello di assecondare le esigenze di riforme di cui il Paese ha bisogno, allora l’agenda delle priorità cambierebbe e, guarda caso, sarebbe in grado di allargare anche la base parlamentare, come anche il consenso popolare.

 

Chi oserebbe infatti mettersi contro un processo con tempi certi, se nel frattempo, però, si aumentano gli stanziamenti per la giustizia, che è senza mezzi? Nessuno, se non si mischiano le carte intervenendo anche sui processi in corso (misura questa che, se non da Fini, verrebbe bocciata da Napolitano o dalla Consulta, fra l’altro). E che ostacoli ci sarebbero a fare subito una riforma del fisco che utilizzi la leva fiscale (anche a parità di risorse stanziate, come ha opportunamente chiarito Alemanno al Meeting) a vantaggio delle famiglie con figli?

 

Nessuno, anzi arriverebbero i voti dell’Udc e di Rutelli, in aggiunta. E il federalismo? Si può provare a farlo in fretta, sulla pelle del Sud (ma con quali voti in Parlamento?), così poi la Lega andrebbe all’incasso al Nord e Fini-Casini al Centro-Sud. E il Pdl? Gli conviene? Ci vuole tempo, invece, per fare sul serio il federalismo fiscale, inserendo norme transitorie, sperimentali, ad esempio sul personale in esubero, e quindi quella commissione del Pdl per studiare la compatibilità del fenomeno, che Berlusconi aveva promesso a Fini, forse sarebbe il caso di farla davvero.


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Quanto ai processi che toccano Berlusconi, anche qui, servirebbe una norma condivisa, ma non una forzatura infilata in questa o quella legge: è il nodo più complicato, ma anche su questo, se una via giuridicamente percorribile si trovasse, in Parlamento i numeri non mancherebbero.

E allora, giacché su tutti questi temi si tratta di andare a braccetto col Quirinale (altro che scontro) perché non accontentare il nonnetto del Colle, prima che si arrabbi davvero, visto che – fra l’altro – il Cavaliere aveva opportunamente promesso un ministro dello Sviluppo Economico in tempi brevi? In fondo si tratta solo di scegliere fra due nomi: o Maurizio Lupi, se Berlusconi vuol premiare un uomo a lui vicino, o la “colomba” finiana Adolfo Urso, attuale viceministro allo Sviluppo Economico, se davvero c’è voglia di sanare la ferita con Fini, e rendere più spedita la navigazione del governo.

L’alternativa, invece, è continuare a far volare gli stracci, dando credito a Stracquadanio che propone un “metodo Boffo” allargato, ossia l’utilizzo su larga scala delle patacche a danno di chi disturba il manovratore, ma è Berlusconi per primo che mostra repulsione, e ho visto che persino Vittorio Feltri inizia ad aver dei dubbi, ed ora auspica ora una riconciliazione (sì, ha detto proprio così a Mentana) fra Berlusconi e Fini.

Per il resto, sulle beghe di questi giorni, e su bordate che ancora verranno da Mirabello, consiglio a tutti di tenere allacciate le cinture. Quella in atto assomiglia più a una partita a poker che a un vero braccio di ferro. Tutti sanno che, al poker, anche un’inflessione asimmetrica di un sopracciglio può alimentare dubbi o certezze nell’altro giocatore, ma poi contano le carte che uno ha in mano, anche se purtroppo (nel frattempo) noi giornalisti finiamo per diventare megafoni di questo o quello, in attesa che le carte si scoprano.

 

Ma, come al Meeting è apparso evidente (nelle parole di Mauro Mauro, ad esempio, e anche di Giorgio Vittadini) si tratta di alzare l’asticella, di tornare alla politica. Riscoprendo il Parlamento, mi ha colpito su questo l’insistenza di Vittadini. Non c’è infatti un luogo diverso, in Italia e non solo da noi, per portare a termine le riforme che servono al Paese. Anche affrontando nemici, imboscate, strategie diverse. Non è vecchia politica. È la politica, da sempre, e senza politica non si cambia il Paese. Si fanno solo interviste. Discorsi. E retroscena. Nel Paese intanto cresce la diffidenza, e la gente non ci crede più. Ma non serve cercare l’applauso degli ultras, se gli sportivi, e persino i tifosi più corretti, non vanno più allo stadio.