L’ambizione di palazzo Chigi impone non di rado qualche niet scomodo. Qualche freno deciso alla lingua del suo miglior alleato, quel Carroccio poco avvezzo in alcuni suoi esponenti a tenere posizioni diplomatiche, a gestire dossier scabrosi e d’interesse nazionale.
Sulla vicenda UniCredit/Profumo si è infatti giocata un’altra fetta della costruzione di una leadership: quella di Giulio Tremonti, il ministro più potente del governo Berlusconi. C’è chi dice che questa volta abbia perso una battaglia pesante a difesa del banchiere genovese: il Tesoro voleva rimanesse al suo posto, per non aprire pericolose crisi al buio dentro la principale banca del Paese e per segnare un punto contro la cordata rivale, quel fronte romano dei poteri forti che ha sempre diffidato, in fin dei conti, di un signore amico di Umberto Bossi e del Carroccio…
È possibile ci sia del vero in questa ricostruzione, ma resta il fatto che per salvare il soldato Profumo Tremonti ha sfidato (minacciato?) il fronte delle fondazioni azioniste, ha imposto la mordacchia alle frasi scomposte dei due dioscuri leghisti veneti, Flavio Tosi e Luca Zaia, convincendo infine Giancarlo Giorgetti, il ministro delle finanze padane, a correggere il tiro e a professare prudenza e sangue freddo perché sul credito e le partite bancarie non si può buttarla in caciara.
Forse Tremonti ha perfino litigato con l’amico Umberto. Qualche giornale lo ha scritto. E tuttavia per Tremonti con i mercati internazionali non si scherza, bando al populismo. Anche a costo di litigare con gli amici o di difendere un profilo di banchiere mai davvero amato.
Mercatista per eccellenza Profumo, con cui ebbe uno scontro furibondo all’epoca dei Tremonti bond che Mr. Arrogance rifiuterà sdegnosamente, varando un aumento di capitale cashes che provocherà non pochi mal di pancia alle fondazioni azioniste; economista sociale di mercato il ministro valtellinese. Insomma due figure agli antipodi.
Ciò nonostante il Tesoro lo ha difeso ben sapendo che una leadership futura capace di allargare lo spettro del centrodestra, coagulando consensi ben oltre il bacino leghista e pidiellino del nord, si costruisce anche e soprattutto così: tenendosi il più possibile lontano dal teatrino della politica di questa estate, non senza furbizie; incarnando dopo la crisi mondiale una nuova idea di Europa federale (un continente, un mercato, una moneta), dopo anni di euroscetticismo; blindando i conti pubblici alla Padoa-Schioppa perché nel nuovo mondo non è più pensabile fare crescita con il deficit; spacciando prudenza sul taglio delle tasse perché l’impellenza è tenere i conti a posto e non si possono fare salti nel buio; frenando i bollenti spiriti leghisti sul federalismo fiscale, che è un processo lungo e graduale, non si può fare la figura di quelli che firmano assegni scoperti perché a pagarne il conto sarebbero le famiglie italiane; e infine tessendo la tela tenace con la galassia del nord, a cominciare dal mondo guzzettiano delle fondazioni bancarie.
Tra il gran capo dell’Acri e il ministro del Tesoro ci sono stati alti e bassi feroci in passato. Prima la battaglia per la riforma delle fondazioni voluta dal Tesoro e tagliata quasi su misura per il leghismo egemone ma stoppata dal banchiere; poi, negli ultimi anni, la grande pax: la collaborazione in Cassa depositi e prestiti, l’housing sociale, il Fondo Pmi e nelle ultime ore la sintonia per un atterraggio morbido in UniCredit.
Un ritorno obbligato al localismo dopo la stagione del gigantismo apolide e dell’onnipotenza dei manager, che ha avuto il suo epilogo con la defenestrazione di Alessandro Profumo. Forse Tremonti sul punto ha perso, ma alla lunga, in chiave leadership politica, la posizione istituzionale assunta (scontentando qualche vecchio amico) potrebbe fare la differenza…