Mi scuso con gli eventuali lettori, perché questo mio “pezzo” può sembrare frutto di uno sfogo dovuto alla lettura mattutina (sono recidivo da anni, ahimè, per ragioni professionali) di una decina tra quotidiani e settimanali.

Evaporato nel giro di 24 ore il “caso Profumo”, mi sono ritrovato, mio malgrado, immerso nell’affare Tulliani, cioè la casa di Montecarlo, donata in punto di morte da una nobile ex fascista, ad Alleanza Nazionale e poi finita in altre mani, a quanto sembra. Sono completamente refrattario alle soap-opere e quindi non so proprio a quale puntata siamo arrivati in questo “affaire” che coinvolge il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, e una serie di comparse che contemplano persino l’ex presidente del Perugia Calcio, Luciano Gaucci, transfuga a Santo Domingo, vicino allo Stato di Santa Lucia, ed ex fidanzato della signora Tulliani che ha un fratello apparentemente “scostumato”. Solo a compilare un eventuale tabellone di questa “pièce” ci vuole un metro di vecchio e nobile piombo tipografico.



Devo anche aggiungere che non sono affatto moralista e so benissimo che gli affari politici sono sempre mescolati a vicende romanzesche, dove soprattutto sesso e soldi hanno una funzione determinante. Al proposito che cosa devo ricordare? Lo scandalo Montesi degli anni Cinquanta italiani, che portò a un attacco indiretto, all’interno della Dc, contro Alcide De Gasperi? Oppure allo scandalo inglese degli anni Sessanta di un altro Profumo (John, detto Jack), allora ministro della Guerra, inebetito di fronte alle splendide gambe di Christine Keeler?



Anche in quelle situazioni, come in molte altre, ci possono essere “tormentoni” che contemplano tutto: politica, colpi di scena, sesso, servizi e presunti servizi “deviati”, spie e depistaggi vari. E devo aggiungere che i giornali, in fin dei conti, non fanno che il loro mestiere: cercano di vendere e in più si schierano a seconda delle loro libere opinioni.

Ma detto questo, va aggiunto che nessuno degli scandali avvenuti in tutte le democrazie occidentali ha mai rappresentato l’immagine prevalente, tanto mai esatta, della realtà di un Paese. Era consuetudine, nei grandi ambienti democratici dell’ultimo dopoguerra, sentir dire: “La democrazia ha uno stomaco di ferro e alla fine digerisce tutto. Per fortuna.” E’ invece diversa da questa consolidata tradizione l’ormai fragile democrazia italiana e lo spettacolo di desolazione che offre questo Paese, soprattutto nella sua classe dirigente presa in blocco.



Condivido in pieno il lead di un fondo del mio vecchio direttore Piero Ostellino, scritto sul Corriere della Sera ieri:"Se si solleva lo sguardo dalla congiuntura delle cronache giornalistiche quotidiane, e si guarda al quadro d’insieme, lo spettacolo sovrastante gli avvenimenti degli ultimi mesi – crisi della maggioranza di governo, eventualità di elezioni anticipate, prospettive di evoluzione della situazione – è desolante. Solo l’insipienza della classe politica, la programmatica malafede di certi media, un’opinione pubblica frastornata, e ormai incapace di discernere, poteva ridurre a una questione tra berlusconismo e antiberlusconismo l’inattualità delle istituzioni, l’inconsistenza della cultura politica nazionale, la fragilità che ne sono emersi. L’intero spettro delle regole, dei principi e degli istituti della nostra vita politica si sono sfarinati, mentre troppi italiani si comportano come degli ultra in uno stadio di calcio".

 

Occorrerà meditare, nei prossimi mesi, su questa frase. Perché così non si pone solo una questione di carattere istituzionale, che esiste sia ben chiaro, ma anche di carattere antropologico. E’ come se la storia contraddittoria ma sostanzialmente positiva di questa Italia repubblicana, che è riuscita a sollevarsi da una gravissima sconfitta militare subita nel 1945, fosse nascosta sotto una coperta sporca, per collocarci sopra il monumento alla cosiddetta "seconda repubblica". E purtroppo e un popolo intero che sembra non avere più le grandi capacità del passato. Consumato, tra proteste popolari guidate dai media e dalle procure della repubblica, il triennio 1992-1995, sono seguiti quindici anni di delirio istituzionale, politico e sociale, dove i proclami più sonanti sono sempre rivolti a una nuova moralità, alla necessità di regole e soprattutto di regole nuove. Si potrebbe riempire una biblioteca con queste altisonanti declamazioni.  

 

E nello stesso tempo, mentre si faceva l’epinicio della moralità, il Paese appariva sempre più smarrito, incerto di fronte alle acrobazie inutili di una classe dirigente che si perde nel nulla del gossip e non affronta mai i veri problemi.

 

C’è voluta una grande crisi finanziaria per riscoprire la necessità del lavoro e del risparmio, ma qualsiasi altro settore della vita pubblica è al centro di discorsi fatti solo su luoghi comuni e si può tranquillamente aggiungere banali. C’è una riflessione del Presidente Emerito della Repubblica, Francesco Cossiga nella sua intervista in "Fotti il potere" prima di morire. Diceva Cossiga: "E’ l’epoca, d’accordo. Ma è difficile dire se di quest’epoca l’élite politica sia figlia o madre. Certo è che il dibattito pubblico è passato dai tragici greci alle soap-opera televisive, da Shakespeare ai Baci Perugina. E degli "arcana imperii" (che tradurre con i segreti del potere sarebbe riduttivo) nessuno sospetta più l’esistenza".

 

La decadenza della cultura politica, susseguente al dibattito sulla "moralità" è davanti agli occhi di tutti. Una vecchia frase di Pietro Nenni liquida ancora di più questa antropologia sbilenca basata soprattutto sulla richiesta di "pulizia" e di polizia: "In fatto di purezza, c’è sempre qualcuno più puro che ti epura". Eppure dopo quindici anni di "tormentoni moralistici" e di caduta vertiginosa di qualità di un dibattito politico e ideale degno da essere preso in considerazione o in grado di coinvolgere un popolo diventato quasi apatico e rassegnato, si innalza ancora come bandiera la "questione morale", che è un fatto che dovrebbe essere scontato e che deriva soprattutto dalla coscienza del fare, dalla voglia di abbracciare il reale e di amare il proprio Paese.

 

E intanto si litiga sulla questione della casa di Montecarlo, da destra e da sinistra con allusioni e ammiccamenti di una commedia dell’assurdo. In queste condizioni, mentre non si capisce nulla e la maggioranza di un popolo disorientato e disabituato ormai a pensare, il vostro cronista frustrato aspetta l’uscita a giorni dell’"Elogio della corruzione" di Carlo Brioschi, ispirato dalla splendida favola sulle api di Bernard De Mandeville. E’ una splendida metafora di "un prima e un dopo una tangentopoli al miele". E’ una magra consolazione, ma di questi tempi è già tanto.