Alla vigilia dell’attesissimo videomessaggio-verità di Gianfranco Fini, Piero Ostellino aveva denunciato lo “spettacolo desolante” che l’attuale sistema politico sta attraversando. Un momento storico nel quale l’“inattualità delle istituzioni”, l’“inconsistenza della cultura politica nazionale” e la “fragilità del sistema politico” sono stati ridotti a dettaglio di uno scontro senza tregua tra berlusconiani e antiberlusconiani: «l’ultima versione – secondo l’opinionista – della storica incapacità dell’Italia di essere popolo, nazione».
A pochi giorni dal voto in Parlamento che potrebbe rilanciare o affossare definitivamente l’azione del governo, IlSussidiario.net riapre la discussione. «Al di là del possibile riavvicinamento tra Pdl e Fli – dice Ostellino – resta difficile nutrire molte speranze sulla reale possibilità della maggioranza di riformare il Paese, dato che in questi ultimi 15 anni è mancata la madre di tutte le riforme: la radicale riduzione della spesa pubblica e la conseguente riduzione della pressione fiscale. La politica degli annunci di quelle riforme che poi non si potranno fare non è più credibile. Anche a giudicare dai sondaggi, gli italiani non ci sperano più».
Secondo molti commentatori il messaggio di Fini presenta due volti: uno dialogante e uno battagliero. Secondo lei, a quale dei due ha scelto di rispondere Berlusconi?
«Il discorso del Presidente della Camera mi è sembrato onestamente più improntato alla giustificazione personale che all’apertura. Allo stesso modo però iniziano a vedersi i primi segnali di distensione dovuti, a mio parere, alla convinzione tardiva di entrambi che la rottura avrebbe dovuto essere evitata. L’espulsione di Fini è stata un colossale errore per il Pdl: una divergenza di vedute che si poteva gestire internamente si è trasformata in un gravissimo problema istituzionale e parlamentare».
Lei non sembra credere a un patto di alto profilo per portare a termine la legislatura…
«Dico solo che il cammino del governo corre il rischio concreto di trasformarsi in una lunga agonia. Le elezioni in primavera sembrano invece la soluzione più probabile, anche se favorirebbero la frammentazione del quadro politico e la conseguente ingovernabilità del Paese».
Sono da escludere governi tecnici o di “liberazione nazionale”, come qualcuno auspica?
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«Sono contrario all’ipotesi del governo tecnico (che in realtà è “politico” perché sostenuto da una maggioranza politica) per il semplice fatto che non riflette, ma tradisce, il volere popolare. Non lo dico perché non si debba rispettare una Costituzione che è ancora quella di un regime parlamentare, ma perché nel frattempo il mondo è cambiato ed è cambiata anche l’Italia. È una soluzione che poteva valere durante la Prima Repubblica, quando si trattava di mettere d’accordo i partiti anticomunisti per impedire al Pci di andare al governo, ma ora che l’alternanza è possibile che senso ha?».
La frammentazione a cui si riferiva prima sembra però già in atto visto che il morbo della scissione nel frattempo si è esteso al Pd, all’Udc e non solo…
«Penso che la causa principale sia la crisi dei due maggiori partiti. I sondaggi ci dicono che Pd e Pdl stanno morendo lentamente. E così, all’interno delle diverse forze politiche, i vari “signori della guerra” si fanno avanti per fare il proprio partito e combattere gli altri».
Sono segnali che anticipano la fine del bipolarismo?
«Può essere, anche se l’unica previsione che mi azzardo a fare è che, se continuiamo così, ci candidiamo a diventare il “Paraguay d’Europa”».
Da dove nasce questa convinzione?
«Dal fatto che il Paese non sembra più avere capacità di reazione. La guerra tra guelfi (berlusconiani) e ghibellini (antiberlusconiani) finirà quando Berlusconi smetterà di fare il Presidente del Consiglio e andrà a vivere in un’isola dei Caraibi. Il dramma è che, anche se molti sono convinti del contrario, dopo l’uscita di scena del Cavaliere niente cambierà. È la cultura politica del Paese ad essere arretrata».
Può fare un esempio?
«Pensiamo a Napoli. Pochi giorni fa la stampa ci ha informato che per le strade è ricomparsa la spazzatura. Significa che il governo non è riuscito a risolvere l’emergenza? Certo, ma il problema fondamentale è un altro: se questo accadesse in un Paese civile e moderno i cittadini prenderebbero in mano le scope e pulirebbero le strade. In Italia, invece, ci si aspetta che lo Stato dall’alto faccia quello che in molte circostanze dovremmo fare noi».
Che concezione c’è dietro questa posizione?
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«Quella dello Stato-Papà, che in un attimo diventa lo Stato-Padrone che può infligge ai cittadini tasse superiori a quelle che è lecito sopportare. È un’idea che viene da lontano, dalla Costituente, dalla Costituzione, da una certa idea di collettività a scapito del singolo individuo. Si pretende di essere liberi a condizione che lo Stato provveda e che i singoli cittadini non siano responsabili di niente. E così ci ritroviamo in un Paese pietrificato nel conservatorismo, che spera soltanto di sopravvivere. Un sistema in cui si campa su quello status quo che nessuno, in termini culturali, sembra in grado di vincere e che nessuno, in termini istituzionali, vuole cambiare. A questo proposito anche i giornali non sono da meno».
Cosa intende dire?
«Sono lo specchio del Paese e di questa crisi. La maggior parte di loro è in perfetta malafede, ha abdicato e si è ridotta al ruolo di interprete dell’assurda guerra tra berlusconiani e antiberlusconiani».
Si riferisce alle recenti inchieste giornaliste e alle accuse incrociate di “pataccheria” e di spionaggio?
«Non proprio, a mio parere Il Giornale meriterebbe il premio Pulitzer perché ha fatto una grande inchiesta. Può piacere o meno, questo è un problema dei lettori. Il problema è che la richiesta di dimissioni nei confronti del Presidente della Camera aveva una ragione politica: l’incompatibilità tra il ruolo di garanzia che dovrebbe svolgere e quello di oppositore dichiarato del governo, che poi è andato a ricoprire.
A proposito di cultura politica, l’incapacità in questo caso è tutta della nostra classe dirigente (nello specifico del Pdl) che ha ridotto un problema politico a una questione immobiliare. Il risultato? Fini si è dissociato dal cognato e nessuno ha saputo replicare».
Se questa è la diagnosi generale, anche le ipotesi di riforma costituzionale o di riformare la legge elettorale sembrano soltanto dei palliativi…
«Certamente. D’altra parte, le riforma costituzionali si fanno se si ha coscienza che la Costituzione non è un monumento di pietra sul cammino dei cittadini, ma che è qualche cosa che vive la vita dei cittadini. Jefferson stesso, quando nacque la costituzione americana, disse che avrebbe certamente subito dei cambiamenti nel corso della storia. Da noi invece viene considerato intoccabile un documento scritto da partiti che non esistono più, in un mondo in cui si pensava ancora che il comunismo fosse il superamento del capitalismo. Siamo fermi al 1947. Se non ci rimettiamo in moto quale futuro ci aspetta?».
(Carlo Melato)