Questa volta è diverso. Ad essere entrati in crisi – nonostante i segnali di apertura e distensione – non sono solamente il partito più rappresentativo e la connessa maggioranza governativa; quest’ultima oramai non più tale, in ragione della formazione in entrambe le Camere di un autonomo gruppo parlamentare (“Futuro e libertà”), per sua stessa natura non pacificamente contiguo con il governo in carica. Più ancora, è il complessivo sistema politico ad essersi dimostrato inefficace, vale a dire incapace di assorbire e ricomporre le conflittualità proprie della politica e della pluralità degli interessi coinvolti.
Si tratta di una crisi che non è solo (prevedibilmente) governativa, ma che coinvolge l’intero impianto partitico ed elettorale. Una crisi tale da rifuggire da ogni semplice automatismo fra caduta del governo ed elezioni anticipate e, invece, tale da presupporre un esercizio incisivo e non già svilito del potere discrezionale riservato al Presidente della Repubblica. Una crisi, insomma, che viene da lontano e che non è nemmeno riconducibile (come invece potrebbe apparire) a questioni contingenti connesse ad opposte valutazioni politiche; derivando piuttosto, fra l’altro, dalla mancata considerazione di quello che è l’elemento fondativo di ogni agire politico, vale a dire il «fattore umano» anche del singolo rappresentante.
A ben vedere, le applicazioni nelle tornate elettorali del 2006 e del 2008 della legge elettorale in vigore (il cosiddetto “porcellum”), non sono riuscite ad assicurare la perseguita stabilità governativa, dissoltasi in entrambi i casi pure in ragione dell’irriducibilità del ruolo riservato al singolo parlamentare; ruolo dimostratosi non solamente esente dal vincolo di mandato imperativo (art. 67 Cost.), ma pure capace di resistere alle coazioni e sanzioni psicologiche derivanti dal sistema di nomina parlamentare sancito dalla medesima legge elettorale. E dunque tanto l’applicazione della legge elettorale nelle votazioni del 2006, orientata in senso multipartitico e proporzionale, quanto quella nelle votazioni del 2008, proiettata nell’opposta prospettiva bipartitica e maggioritaria, non hanno potuto garantire la perseguita tenuta della maggioranza governativa: nel primo caso, in ragione dell’estenuante conflittualità della coalizione di governo, conclusasi con la fuoriuscita del ministro Mastella; nel secondo caso, in ragione della pari conflittualità fra i due cofondatori del partito più rappresentativo, conclusasi con la pari fuoriuscita del Presidente Fini dall’originario gruppo parlamentare d’appartenenza.
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Il rilievo è paradossale, considerata l’opposta finalità invece perseguita dalla legge elettorale. Nell’implicito disegno di quest’ultima, infatti, la sostituzione del meccanismo delle preferenze con quello delle cosiddette “liste bloccate” (tale da sottrarre al singolo elettore la facoltà d’indicare nella scheda elettorale il candidato preferito) avrebbe dovuto sortire un differente effetto; avrebbe dovuto vincolare (rectius: asservire) al leader del partito d’appartenenza i voleri del singolo parlamentare, in modo da impegnare il consenso di quest’ultimo nelle votazioni parlamentari, pena la mancata candidatura nelle successive elezioni politiche.
Un tale sistema, di conseguenza, avrebbe dovuto assicurare alla maggioranza governativa una coesione, per così dire, militarizzata, fondata sull’indiscutibile e matematica certezza dell’adesione dei singoli parlamentari all’indirizzo politico del governo. In definitiva, una volta trasformati i parlamentari in semplici replicanti dei voleri del leader di riferimento, detto sistema avrebbe dovuto appiattire il controllo parlamentare sull’iniziativa governativa, svuotandolo di ogni effettivo potere d’intervento e di sanzione.
Con un’imprevedibile eterogenesi dei fini, per contro, proprio una tale evenienza è stata scongiurata in entrambe le legislature prese in considerazione. Con il che, ovviamente, non si intende tanto celebrare il dissenso dei parlamentari interessati, considerandolo ingenuamente alla stregua di una candida e distaccata proposizione di una linea politica scevra da contrapposti interessi ed esente da veti, ostruzionismi e pressioni d’altro genere. Più semplicemente, si intende sottolineare la necessità, per ogni sistema politico, di favorire la ricomposizione dell’eventuale dissenso interno alla maggioranza governativa attraverso gli ordinari strumenti del regime parlamentare, non invece attraverso quelli straordinari derivanti da illusorie e fallimentari scorciatoie. Conculcare la libera adesione del singolo parlamentare (sia pure in nome di una convenienza politica e/o di una prossima certa rielezione), indebolisce anziché rafforzare la coesione delle forze politiche e dei gruppi parlamentari, giacché manca di considerare l’incidenza e l’imprevedibilità del «fattore umano» sulle dinamiche politiche.
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Di qui, per l’appunto, la peculiarità della crisi politica apertasi in questi giorni. Una crisi derivata anche dai riscontrati limiti del sistema elettorale e partitico sorto sulla base della legge elettorale del 2005; dunque, una crisi destinata inevitabilmente a riproporsi nella prossima legislatura, ove mai il Parlamento sia incautamente sciolto in assenza di una nuova legge elettorale, quantomeno correttiva di quella in vigore. Ecco perché questa volta le valutazioni del Presidente della Repubblica non dovranno solamente farsi carico del «se» e del «come» impedire lo scioglimento anticipato delle Camere; dovranno altresì occuparsi della nuova e cruciale questione riguardante il «come» evitare che per la terza volta una prossima legislatura possa essere traumaticamente interrotta per il riproporsi delle medesime cause strutturali.
Che la politica torni alla politica e che il sistema elettorale sia incentrato sul «fattore umano». Queste sono le urgenze ineludibili che il Presidente della Repubblica è chiamato a favorire, sia pure attraverso un eventuale governo di transizione («tecnico» «politico» che sia), pena la definitiva dissoluzione del regime parlamentare e della credibilità delle regole della convivenza civile del Paese.