Ieri notte Berlusconi ha incontrato l’alleato Bossi in un vertice di cui, al momento in cui pubblichiamo questa intervista, non si conosce ancora il risultato. Si sa solamente che la Lega preme per avere elezioni il più presto possibile. Ma non sarà facile, dice Stefano Folli, editorialista del Sole-24 Ore, perché il nostro sistema costituzionale è congegnato in modo tale che i fili della matassa sono in mano al Capo dello Stato. Le elezioni? Non nell’immediato, secondo Folli. Si andrà avanti, con tutte le riserve e le ambiguità che hanno segnato questi ultimi due mesi. Il dato politico forte è che con la morte del Pdl decretata inequivocabilmente da Fini, termina una grande operazione che doveva consolidare il bipolarismo italiano.



Folli, torniamo per un attimo a Mirabello. Fini, oltre a decretare a chiare lettere la morte del Pdl, ha spiegato altrettanto bene il suo progetto politico?

Il discorso di Fini è stato a tratti anche molto efficace nel marcare le differenze, non c’è dubbio, ma ci sono elementi che il presidente della Camera non ha chiarito. Per esempio non ha detto se ha creato o no un partito. La mia opinione è che si stia avviando a costituirlo, ma che lo farà formalmente soltanto nel momento in cui la legislatura sarà esaurita. Di fatto, però, il suo partito c’è già.



A legislatura esaurita, dice. C’è però la sensazione che le elezioni siano inevitabili.

Non nell’immediato. Salvo colpi di scena che non possiamo prevedere, le elezioni per ora sono solo uno spettro politico: non ci sono. C’è la proposta formulata da Fini di andare avanti con quello che ha chiamato «patto di legislatura». In realtà non sarà un vero patto di legislatura ma qualcosa di meno: sarà un voto, pieno di riserve, sul documento programmatico del governo, a cui seguirà una fiducia condizionata, soprattutto a provvedimenti in materia economica.

Fini però lo ha invocato esplicitamente. A che pro dunque?



Un patto di legislatura è qualcosa di diverso: un accordo pieno, serio, per fare un tratto di strada in maniera coesa. Ma siamo lontanissimi da un accordo di questo tipo, perché non ci sono più le condizioni politiche. Ci vorrebbe un Berlusconi più capace di gestire una situazione che sembra essergli sfuggita di mano; un Bossi disponibile ad un compromesso con Fini; un Fini disponibile in qualche modo a rientrare nei «ranghi». Col patto di legislatura otterrebbe un riconoscimento del soggetto politico che rappresenta, è vero, ma la contropartita sarebbe quella di un vincolo che non può accettare. E poi ci sono i rapporti personali: i rancori non giocano a favore. Altro elemento contradditorio: perché la sua offerta è arrivata così tardi?

Insomma ci aspetta un periodo difficile. Che cosa vedremo?

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La prosecuzione del logoramento di Berlusconi, fino al momento in cui la corda si spezzerà e si andrà a votare, di qui a qualche mese. Il Pdl nel frattempo ha ripreso l’offensiva su Fini perché lasci la presidenza della Camera.

 

Perché dice che Berlusconi ha dato l’impressione di non riuscire a gestire la situazione a dovere?

 

Prima c’è stato un attacco violento contro Fini, anche sul piano personale. Poi l’annuncio che il gruppo di Fini sarebbe stato rapidamente «svuotato», ma questo non è accaduto. Quindi è venuta l’ipotesi delle elezioni anticipate, agitata, rimessa nel cassetto e infine ritirata fuori domenica sera sull’onda emotiva del discorso di Mirabello. Una settimana Berlusconi ritira fuori il processo breve e lo mette al centro dell’azione di governo, infine lo toglie. È un comportamento schizofrenico, zigzagante, che denota difficoltà.

 

Altro problema: chi si assume l’onere di rompere.

 

Naturalmente c’è anche questo. Perché vede, si possono anche desiderare le elezioni anticipate: anch’io penso che al punto in cui siamo sarebbe meglio sul piano politico andare a votare, però poi sul piano concreto non è così semplice. Il nostro sistema politico è congegnato in modo tale che i fili della matassa sono in mano al Capo dello Stato. In Gran Bretagna è il primo ministro che decide lo scioglimento del parlamento, da noi no, occorre una crisi di governo. E non è molto congeniale a Berlusconi l’idea di doversi dimettere…

 

Quindi?

 

Fini voterà probabilmente la fiducia sui provvedimenti. Se Berlusconi avesse voluto rompere definitivamente, avrebbe lasciato il processo breve tra i punti della verifica e Fini non avrebbe potuto accettarlo. Averlo tolto vuol dire che c’è comunque la volontà di andare avanti. Come questo avverrà? Con tutte le riserve e le ambiguità che hanno segnato questi ultimi due mesi.

 

Nel suo discorso Fini ha invocato una riforma della legge elettorale. Per questa via le istanze di Futuro e libertà incontrano quelle dell’Udc.

 

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La possibilità di cambiare la legge elettorale non è realistica. Potrebbe diventare un elemento di scambio politico se ci fosse il patto di legislatura, ma io non credo che vi si arrivi, perché come tutti sappiamo sulla legge elettorale ci sono «duecentocinquanta» opinioni diverse anche solo tra coloro che la vogliono cambiare, e questi molto difficilmente arrivano ad aver la maggioranza in Parlamento. Ma se anche l’avessero, sarebbe una somma aritmetica che non avrebbe molto senso, data la diversità delle opinioni e la gamma di sfumature. Dovremmo immaginare un blitz di forze trasversali che fanno la riforma. Lei lo vede possibile, nel nostro Parlamento? Infine, un governo non ha alcuna possibilità di nascere su questo presupposto, fare cioè la legge elettorale e andare al voto.

 

Dopo aver bersagliato i tagli «lineari» di Tremonti e il federalismo a senso unico di Bossi, Fini quali interlocutori troverà?

 

In realtà Fini non ha alcun vantaggio a restare isolato, questo è evidente, esattamente come rimane evidente che il suo scopo è l’indebolimento di Berlusconi. In questo senso può fargli comodo tenere in piedi una relazione con Tremonti, nonostante tutto; e pure con Bossi, anche se è più difficile, perché i due bacini elettorali sono agli antipodi.

 

Nella notte si è svolto il vertice tra Berlusconi e Bossi. Secondo lei com’è andata?

 

Avranno attaccato Fini in modo pesante, soprattutto sulla questione della presidenza della Camera; avranno detto con ogni probabilità che il programma del governo deve essere ben definito, e che chi vota i punti programmatici deve essere coerente e leale. La logica in casa Pdl sarà quella di prendere o lasciare, mentre Fini punterà ad affrontare e discutere i singoli aspetti, per salvare il suo margine di manovra.

 

Cosa cambia secondo lei nella nostra politica dopo il discorso di Mirabello?

 

Fini è stato cofondatore del Pdl e se Fini dice che il Pdl non c’è più, il punto di vista non è indifferente: il Pdl cioè è davvero finito. Con esso termina una grande operazione che doveva consolidare il bipolarismo italiano, perché il Pdl doveva dimostrare esattamente questo, che si potevano amalgamare forze diverse in una forza che avesse una sua compattezza e coerenza. Si badi però che questo tentativo non ha funzionato nemmeno a sinistra, perché il partito a vocazione maggioritaria di Veltroni nasceva sulla base di queste stesse premesse, quelle di un Pd «uguale» al Pdl per vocazione, ma di segno opposto. Il quasi-bipartitismo è fallito. È qualcosa di serio su cui riflettere, e che riguarda il nostro intero assetto politico.

 

 

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