Se la parziale bocciatura del legittimo impedimento e le inchieste della procura milanese hanno riacceso l’eterno scontro tra Berlusconi e la magistratura, il referendum Fiat ha fatto emergere senza sconti le divisioni profonde che albergano nel centrosinistra. Si annunciano perciò mesi di grande tensione politica e di incertezza. In questo quadro dagli esiti imprevedibili qual è la strada per uscire da una crisi non più soltanto economica come quella che stiamo attraversando? Secondo il filosofo Pietro Barcellona, già membro del Csm e deputato del Pci, «non possiamo aspettare che qualcuno dall’alto risolva la situazione. È responsabilità di ciascuno, infatti, ridiffondere la democrazia in tutti i corpi sociali».
Partendo dal conflitto politica-giustizia che nel nostro Paese si trascina da anni, quali sono a suo avviso le responsabilità maggiori e le possibili soluzioni?
Senza addentrarmi nel caso particolare di cui si discute da giorni, c’è un rischio che mi preme sottolineare: la magistratura non deve mai sostituirsi alla politica, per il semplice fatto che non ha alcuna legittimazione democratica.
In questi anni l’espansione della giustizia al di là dei propri confini ha certamente costituito una patologia, se però dovessi indicare una cura, non vedrei molte alternative: tocca ai magistrati proporre delle autoriforme, anche se questo è il Paese in cui nessuno sembra in grado di riformarsi. Forse però è giunto il momento di un convegno unitario che vada oltre le riunioni di corrente e che dia inizio a una seria riflessione sugli errori compiuti in questi anni.
La politica, dal canto suo, non può invece esimersi dall’analizzare seriamente i danni procurati dall’eccessiva personalizzazione che Silvio Berlusconi ha portato avanti in questa vicenda.
Lo spaesamento della sinistra nei confronti del caso Fiat è dovuto anche al fatto che il tema della giustizia è diventato per lei centrale nello scontro politico di questi anni?
In parte è così, anche se il dato più preoccupante è che la sinistra non ha più un’elaborazione propria se si parla di trasformazione del mondo del lavoro e del sistema produttivo, tema che negli anni Settanta era centrale. Il sogno che si coltivava allora era infatti quello che attraverso la democrazia economica si potesse arrivare alla partecipazione dei lavoratori nella progettazione dello sviluppo italiano. Bisognerebbe andare a rileggersi “Da sfruttati a produttori” di Bruno Trentin…
Quando e perché la sinistra ha smesso di fare questo lavoro?
Tra gli anni Ottanta e Novanta il presentimento di una crisi storica mise al primo piano la battaglia politica, anche se una delle caratteristiche che fino a quel momento il Pci aveva conservato era quella di costruire le proprie proposte politiche a partire dall’analisi economica e sociale. La società era sempre stata il punto di partenza. La stessa premessa del “compromesso storico” su cui Berlinguer ragionava, ipotizzando la confluenza del mondo cattolico e del movimento operaio in una prospettiva di riscatto nazionale, era infatti un’analisi della debolezza del Paese.
A mio parere il disastro politico che constatiamo oggi deriva invece dal fatto che la società non c’è più. Alla politica interessano soltanto le alleanze possibili e i nemici da abbattere. Se si perde il rapporto con la società si formulano però delle proposte politiche poco plausibili.
Da dove può ripartire la sinistra secondo lei?
Deve innanzitutto avere il coraggio di riprendere in mano la propria storia. Negli ultimi anni, moltissimi di quelli che provenivano dal Pci hanno voluto rinnegare questa appartenenza, ma non credo che questo sia stato un fatto positivo. Se uno, infatti, non ritrova le ragioni della propria militanza non può nemmeno capire dove ha sbagliato.
Il fatto è che la sinistra è stata sconfitta, ma su questo non ha mai voluto riflettere. Fino a quando non lo farà non avrà però futuro. Se invece parliamo del caso Fiat è evidente che occorrono meditazioni profonde in grado di superare antiche rigidità. Devo però anche aggiungere che in questa trattativa Marchionne ha mostrato il volto sgradevole dell’“aut-aut”, la logica peggiore con cui si instaura un dialogo.
All’indomani del voto di Mirafiori c’è secondo lei il rischio che la tensione di queste settimane possa degenerare? Esiste anche un problema di rappresentanza?
Secondo me sì e, purtroppo, l’estremismo è sempre stato legato a una crisi della rappresentanza. Anche il fascismo, ad esempio, fu una disgraziata conseguenza della mancanza di rappresentanza di pezzi della società. Del resto, se una persona non riesce a esprimere ciò che ritiene importante può arrivare a scegliere la strada della violenza.
È un problema che dobbiamo affrontare e che coinvolge i diversi ambiti: dalla famiglia (pensiamo ai casi di violenza famigliare che ultimamente ascoltiamo dalla tv con grande raccapriccio) alla vita collettiva, sia che si parli di economia, di lavoro o di politica. Pensiamo alla semplificazione estrema del nostro sistema politico-elettorale, alla contrapposizione tra bianco e nero che produce inevitabilmente una massa non rappresentata, una “massa critica”. Bisognerebbe poi chiedersi perché la gente apparentemente va in piazza, ma in realtà non si mobilita più…
Cosa intende dire?
Le persone sembrano occuparsi solo dell’immediato presente, salvo poi partecipare all’astrazione fuorviante di una politica ridotta ai guai giudiziari di Berlusconi. Ci si schiera di conseguenza in modo elementare, fazioso, senza alcun ragionamento, come se la guerra fosse diventata un valore in sé. In realtà ogni guerra deve avere come obiettivo la pace, se invece diventa un gioco che si autoriproduce in eterno segna la fine della civiltà.
Se questa è la situazione attuale, da dove si riparte secondo lei?
Non possiamo aspettare che qualcuno dall’alto risolva la situazione. È responsabilità di ciascuno, infatti, ridiffondere la democrazia in tutti i corpi sociali.
La mia non è apologia della democrazia dal basso o dello spontaneismo, io intendo la democrazia come pratica collettiva nell’ambito in cui uno opera. Bisogna però viverla con il gusto di un’esperienza che arricchisce, perché se si privilegia soltanto l’aspetto decisionale la società continuerà a vivere male.
D’altra parte la storia insegna che la democrazia non si impone né con le leggi, né con le armi e io personalmente ho molta fiducia nella logica dei piccoli gruppi.
Cosa intende?
Una crisi profonda come quella che stiamo attraversando coinvolge molti aspetti della vita e chiede a ciascuno di mettersi in campo con onestà. Le faccio un esempio. Se un professore mentre insegna provasse davvero a sviluppare la capacità di dialogo con i propri studenti, diffonderebbe democrazia sostanziale. Se invece rinunciasse al proprio dovere, rifugiandosi all’interno del suo ruolo invalicabile la partita sarebbe chiusa. Questo andrebbe fatto ovunque, però, a cominciare dalla propria famiglia. In questo modo, a livello di Sistema Paese, forse non ci avvicineremmo al modello socialdemocratico tedesco, ma almeno il nostro modello “conflittuale” non si ridurrebbe all’esaltazione dell’assoluta unilateralità delle posizioni.
Per uscire dalla crisi ognuno si faccia perciò carico delle proprie responsabilità.
Certo, il berlusconismo è stato per tutti, sia che si consideri il premier il “salvatore” o il “caprio espiatorio”, un alibi, il miglior espediente politico per non affrontare i problemi del Paese. È ora che ciascuno di noi si rimetta in discussione…
(Carlo Melato)