Malgrado le pagine e pagine dedicate da tutti i maggiori quotidiani al “caso Ruby”, la notizia politica di maggior rilievo della settimana è il pur faticoso procedere del cosiddetto federalismo fiscale. La cosa più importante da dire al riguardo è però che tale presunto federalismo si sta risolvendo in un compromesso tanto al ribasso da divenire in sostanza inutile.



Non si capisce proprio perché la Lega Nord ci tenga al punto da giocare su di esso le sorti della legislatura. Se anche andasse in porto mancherebbe infatti inevitabilmente a quello che dovrebbe essere il suo obiettivo di fondo: la riduzione rapida e significativa della pressione fiscale realizzata tirando la leva del consenso e dell’efficienza, e non quella, in realtà inefficace, dell’aumento dei controlli e dei tagli “lineari”.



Questo perché esso si fonda ancora in ultima analisi sull’equivoco che sta spingendo gli Stati centralizzati moderni verso la bancarotta: l’idea cioè che le imposte siano delle norme, addirittura degli strumenti di riforma sociale, mentre invece sono e devono essere innanzitutto un prezzo: il prezzo della pubblica amministrazione. E come tali non c’è altro modo per tenerli bassi se non il regime di concorrenza.   

Com’è stato ancora una volta confermato da dati diffusi di recente dall’OCDE, tutti i Paesi davvero federali, come la Svizzera, gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia,  hanno una pressione fiscale che o è addirittura inferiore (si veda il 24 per cento degli Stati Uniti) oppure si aggira attorno  al 30 per cento,  mentre tutti i maggiori Paesi centralizzati, compresa quindi l’Italia, sono sopra il 40 per cento di pressione fiscale.



È per noi particolarmente significativo il caso della Svizzera, Paese col quale confiniamo o dove il livello di qualità della pubblica amministrazione è evidentemente superiore al nostro. In Svizzera la pressione fiscale è pari al 30,3 per cento, oltre dieci punti in meno della nostra.  Perché questo può accadere? Non in forza di chissà quale sistema di controllo bensì di un semplice, ma efficace principio: chi decide la spesa è anche colui che decide le imposte, essendo pienamente responsabile di fronte ai propri elettori sia della prima che delle seconde; pertanto, al di sotto di un “tetto” massimo di prelievo valido per tutti, nei campi di imposizione ad esso riservati ogni governo locale o regionale  può, se ne è capace, ridurre le imposte fin dove vuole.

Ciò provoca una positiva concorrenza al ribasso della pressione fiscale tra Comuni e rispettivamente tra governi territoriali (Stati federati, Province federali, Cantoni ecc.) orientata ad assicurare ai cittadini e ai residenti il massimo dei servizi richiesti al minor costo possibile. Grazie a tutto ciò non solo gli enti di governo entrano positivamente in concorrenza tra di loro, ma anche la lotta all’evasione fiscale diventa un interesse di massa: se infatti  sono certo che la cattiva amministrazione e l’evasione fiscale mi costeranno più tasse l’anno venturo, o viceversa che la buona amministrazione e la correttezza fiscale me le faranno diminuire, non c’è bisogno della Guardia di Finanza perché la Guardia di Finanza dei miei concittadini e del mio sindaco o presidente di Regione sono io stesso.

C’è poi la questione della solidarietà con i territori con minor capacità fiscale, ma questo è un corollario, non il problema. È uno dei punti di arrivo, non il punto di partenza.
Il cosiddetto “federalismo fiscale” cui si sta lavorando in Italia è invece un semplice programma di ridistribuzione di un gettito fiscale che continua a essere definito e governato in modo rettilineo dal governo centrale.

Di qui il defatigante lavoro di lavoro di tiramolla, che richiama alla memoria gli storici mercati dei bovini, in corso in questi giorni tra il ministro Calderoli e i  rappresentanti dei più diversi interessi costituiti ostili alla riforma:  burocrazie ministeriali parassitarie, clientele meridionali, burocrazie centrali “parallele” (spesso ancor più avide quelle istituzionali), rappresentanti di settori economici sussidiati e così via. 

Qualunque persona minimamente addetta ai lavori non fatica a rendersi conto che, finché si resta rinchiusi in questo perimetro, la montagna non può che partorire topolini.  Chi ci spera – e tra costoro con mia sorpresa anche la Lega Nord – scommette sulla possibilità che l’avvio di tale pseudo-federalismo fiscale metta in moto un processo socio-politico tale da spingere in modo irrefrenabile verso il federalismo autentico.

A mio avviso è una scommessa perduta in partenza. Restando a metà strada tra il vecchio centralismo di antica matrice napoleonica e le nuove esigenze di responsabilità fiscale, nella misura in cui verrà attuata questa riforma finirà solo per risolversi in un aumento perverso e controproducente di controlli burocratici e di contenzioso fra lo Stato, le Regioni e i Comuni.

E come già altrove ho avuto modo di osservare, non ci si venga a dire che delle riforme davvero radicali e innovative distano anni-luce dalla realtà del nostro Paese. È vero, ma siccome il collasso dell’economia italiana è invece dietro l’angolo c’è da sperare che quegli anni-luce vengano percorsi in un battibaleno.

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