Queste righe sono frutto di pura fantasia, un romanzetto in sedicesimi che quindi va trattato come tale: continuate a leggere i giornali per informarvi.
La mattina del 6 novembre 2008 appariva una come tante a Washington: il freddo cominciava a farsi sentire, l’inverno si presentava sotto forma di gente intabarrata e baveri di giubbotti e capotti che si alzavano per contrastare il vento tagliente. Per qualcuno, però, quella mattina impregnata di caffè senza zucchero e sigarette fumate in fretta al gelo era destinata a tramutarsi in qualcosa di inaudito e, soprattutto, dirimente per il futuro.
«Quello è completamente pazzo! È tornato da sette mesi e questo è l’aperitivo della sua nuova amministrazione? Ora basta, occorre intervenire. Ma l’avete sentito?!» Cos’era successo per far tremare le vetrate di quell’ufficio ordinato e molto severo del Dipartimento di Stato? Silvio Berlusconi era in Russia per incontrarsi con il presidente Medvedev e, come spesso gli accade, utilizzava le conferenze stampa per lanciarsi in battute e barzellette come intermezzo rilassante tra un guaio e l’altro. «Il presidente Obama? È bello, giovane e anche abbronzato». Apriti cielo, la stampa italiana e l’opposizione vanno su tutte le furie: è un razzista, manca di rispetto al presidente americano, fa fare la solita figura all’Italia, ecc. Direte voi, se nel Belpaese la reazione è stata questa, è assolutamente comprensibile quella dell’anonimo funzionario del Dipartimento di Stato.
Peccato che la battuta su Obama e il suo tasso di melanina non si stata affatto il motivo di quello scoppio d’ira e del fatto che per ore i gemelli di cotone arrotolato fossero torturati nervosamente tra le asole della camicia fresca di bucato del grand commis. Anzi, talmente tanta la rabbia che il funzionario Usa nemmeno l’aveva sentita quella battuta. Ma cosa allora aveva mandato su tutte le furie il Dipartimento di Stato? «Ringrazio il presidente Medvedev per avere apprezzato la posizione italiana in merito al conflitto con l’Ossezia. Questa posizione era basata sulla conoscenza dei fatti. E io penso che questi fatti dovrebbero aiutare la comunità internazionale a comprendere che cosa sia accaduto in realtà e superare la disinformazione che spostò l’opinione pubblica lontana dalla realtà». Firmato, Silvio Berlusconi. Ovvero, il presidente del Consiglio di un paese Nato strategicamente e geopoliticamente fondamentale come l’Italia dichiarava pubblicamente che la versione dei fatti fornita fino ad allora dall’America, e ripetuta su tutti i giornali, era una totale menzogna e che la versione dei fatti autentica era quella della Russia.
Ricordavate questa frase? No, vero? Per forza, il giorno dopo sui giornali si parlava solo di “Obama abbronzato” e degli strepiti che seguirono. A Washington, invece, l’hanno sentita bene. E l’hanno annotata con la matita rossa, la stessa utilizzata per cerchiare la data del 6 novembre 2008 sul calendario: l’operazione “spacca-Silvio” ha inizio proprio qui. Ma undici giorni dopo, la situazione precipita: il 17 novembre, Silvio Berlusconi alza ulteriormente il tiro, dichiarando che le progettate installazioni di radar e missili americani in Polonia e Repubblica Ceca, ufficialmente destinate a intercettare missili dall’Iran (scusa fantasiosa quanto le introvabili armi di distruzione di massa di Saddam Hussein), sono in realtà una provocazione contro la Russia, così come lo è il riconoscimento del Kosovo, atti unilaterali che potrebbero condurre a una nuova guerra fredda: «Sarò diretto: da parte degli Stati Uniti sono state lanciate provocazioni nei confronti della Russia. Mi riferisco al progetto di collocare i missili in Polonia e Repubblica Ceca, al riconoscimento unilaterale del Kosovo, all’accelerazione del processo di entrata di Ucraina e Georgia nella Nato». Firmato, anche questa volta, Silvio Berlusconi.
Non a caso, tanto per sottolineare la serietà del tasto toccato, l’unico commento noto al riguardo è stato quello di Giulio Andreotti, uno che di certe cose se ne intende, rapporti Atlantici compresi, che consiglia discretamente a Berlusconi di «tenersi lontano da certi argomenti». Chi tocca, muore? Detto fatto, la notizia scomparirà da giornali e siti italiani in poche ore. Così, mentre gli strateghi angloamericani investono energie e risorse per isolare la Russia cercando in mille modi di rovinarne l’immagine internazionale, e al tempo stesso affrontano la dura partita a scacchi contro la Cina, il buon Berlusconi esce dal coro, spingendosi addirittura a candidare la Russia come membro dell’Unione Europea. «He’s actually out of control, now it’s too much. Let’s dump him, once for all», l’ordine è chiaro: stavolta Silvio Berlusconi ha passato il segno, la sua fine politica è decretata.
E cosa fa Silvio Berlusconi, ovviamente conscio e reso edotto del malumore statunitense, soprattutto degli strati intermedi del Dipartimento di Stato, ancora in balia della cosiddetta sindrome da transizione, trattandosi di un organismo politico a chiaro profilo neo-con dopo gli anni di fuoco di George W. Bush, a cui oggi i liberal dell’amministrazione Obama devono cambiare i connotati senza cambiare uomini e teste? Chiama l’Ambasciatore? Chiede la mediazione britannica? Vaticana? Di Kissinger tramite la Fiat? Convoca Letta e Frattini e cerca di organizzare in fretta e furia un viaggio ufficiale negli Usa? Chiama direttamente Obama?
No, nel rapporto con la Russia passa dalle parole (già di per sé pesanti) ai fatti: Eni sarà al fianco della russa Gazprom nel progetto South Stream, necessario per ottenere gas russo bypassando l’Ucraina, impegnata in un pesante braccio di ferro energetico con Mosca e alleato Nato, quindi grimaldello Usa nella guerra asimettrica con la Russia che passava anche attraverso il progetto di pipeline alternativa, Nabucco. Insomma, Silvio Berlusconi non è controllabile e, nei fatti, è una minaccia in seno all’Ue e al G8 degli interessi Usa. Nella stanza il denso fumo di sigarette viene spezzato ogni tanto da qualche refolo d’aria, ma non appena la finestra viene nuovamente chiusa, le colonnine azzurrine continuano a salire verso il cielo sotto varie forme: anelli, nuvole, lunghi sospiri o timidi esercizi di espirazione dal naso per chi il catrame, oltre che nelle vene, lo vuole tutto nei polmoni.
Il silenzio è rotto: «L’altra volta era funzionata abbastanza bene, riproviamo la stessa strategia: come l’avevano chiamata i media italiani, Tangentopoli, vero? Proviamoci ancora, il soggetto si presta, ma questa volta agendo su due livelli: preparare il terreno attraverso una campagna mediatica di character assassination di Silvio Berlusconi e favorire un golpe interno alla sua stessa maggioranza, utilizzando ancora la chiave della questione morale, dei rapporti con la mafia di alcuni esponenti del governo, delle inchieste in corso e le leggi ad personam. Quel Gianfranco Fini è l’uomo giusto, occorre puntare su di lui. Silvio Berlusconi, come ogni uomo, ha le sue debolezze, lo sappiamo da fonte certa dei nostri ambasciatori e degli uomini dei servizi, quindi non sarà difficile che si complichi la vita da solo se creiamo le condizioni per un accerchiamento mediatico preventivo».
L’ordine è partito, Silvio Berlusconi va eliminato. È il dicembre del 2008. A luglio 2009, la prima seria avvisaglia. In occasione del G8 a L’Aquila, il quotidiano britannico The Guardian, progressista e molto vicino all’influente Fabian Society, ipotizza addirittura la cacciata dell’Italia dal G8 a favore dell’ingresso della Spagna. In un articolo intitolato “All’interno del G8 crescono le voci di un’espulsione dell’Italia, perché i piani del summit sono caduti nel caos”, il giornale prevede un futuro vertice senza l’Italia, «sostituita dalla Spagna che ha un più alto reddito pro capite» e riporta alcune affermazioni di alti funzionari occidentali, secondo i quali «il G8 è un club, con la sua quota partecipativa da pagare. L’Italia non lo sta facendo». Secondo la fonte citata, «gli italiani – nell’organizzazione del summit – sono stati terribili. Non ci sono né metodi, né programmi».
Il giornale scriveva che, negli ultimi giorni, in assenza di iniziative concrete in agenda, gli Usa hanno preso il controllo della situazione, organizzando una «teleconferenza tra gli sherpa, in un ultimo disperato tentativo di inserire degli obiettivi nel summit». Un analista della New York University, Richard Gowan, citato dal giornale, criticò duramente la presidenza di Silvio Berlusconi: «Gli italiani non hanno idee e hanno deciso che la cosa migliore è propagandare un’agenda molto sintetica per nascondere il fatto che non hanno realmente un’agenda». Poche settimane e l’esistenza dell’assalto finale al Cavaliere, del resto, viene candidamente preannunciata da Paolo Guzzanti, senatore che ha rotto col premier accusandolo di aver tradito Washington per vendersi a Mosca, sua nemica storica dopo l’avvelenamento mortale a Londra dell’ex spia Litvinenko e il caso Scaramella.
Sul suo blog, l’11 settembre del 2009, il senatore fuoriuscito dal Pdl scriveva testualmente: «L’ordine è arrivato dagli Usa: Berlusconi va eliminato. […]. A me già lo disse chiaro e tondo l’ambasciatore Spogli, che andai a salutare quando lasciò l’ambasciata di via Veneto (5 febbraio 2009, ndr): “Vogliamo un’Italia che non dipenda dalla Russia come una colonia e non vogliamo che la Russia incassi una somma di denaro di dimensioni mostruose, che poi Mosca converte direttamente in armamenti militari”. Da allora, un fatto nuovo di enorme gravità si è aggiunto: l’Italia ha silurato il gasdotto Nabucco (che eliminava la fornitura russa passando per Georgia e Turchia) facendo trionfare South Stream, cioè l’oro di Putin. Contemporaneamente Berlusconi organizzava la triangolazione Roma-Tripoli-Mosca associando Gheddafi nell’affare. […]. L’operazione è stata preparata con cura attraverso una campagna mediatica di lavoro al corpo di Berlusconi, basato sulle vicende sessuali, sulle inchieste di mafia e sulla formazione, nell’area moderata, di un’alternativa politica a tre punte: Luca Cordero di Montezemolo, Perferdinando Casini e Gianfranco Fini, ciascuno a suo modo e con le sue vie, ma in una sintonia trasparente. […]. Lo scontro è ravvicinato e mortale. La grande manovra è cominciata, le artiglierie già battono il campo».
Il giorno dopo, per i più duri di comprendonio, Guzzanti aggiungeva due particolari illuminanti: «Le grandi inchieste Mani Pulite sono nate dalla polizia Usa (non dalla Cia ma dall’Fbi)» e «il nuovo ambasciatore Usa, David Thorne, che davanti al Senato Usa ha spiegato di essere consapevole dei problemi che dividono Usa e Italia, ieri ha reso visita per mezz’ora a Montecitorio a Gianfranco Fini». È il 20 settembre del 2009, pochi mesi dopo l’incoronazione, e la fase attuativa del piano diventa operativa nel modo più palese e ufficiale. Nel mese di febbraio, Gianfranco Fini sbarca con tutti gli onori a Washington in visita ufficiale in qualità di presidente della Camera. Che il viaggio non fosse di puro protocollo lo ha reso chiaro fin dall’inizio la Speaker del Congresso, Nancy Pelosi: i liberal americani, che hanno sostituito i neo-con repubblicani nelle stanze dei bottoni di Washington, hanno accolto Fini trionfalmente per inviare un segnale ai Palazzi di Roma che contano. Insomma, per l’America il politico italiano più adatto a prendere, quando quel giorno prima o poi verrà, il posto del premier Silvio Berlusconi, risponde al nome di Gianfranco Fini, soprattutto per le sue posizioni sui diritti civili, elemento sottolineato a ogni piè sospinto dalla Pelosi.
Non si ricorda, in tempi recenti, di presidenti della Camera italiana ricevuti così a lungo da influenti vicepresidenti come Joe Biden, almeno per quanto riguarda le strategie degli Usa in Medio Oriente. E non si ricorda un presidente della Camera ricevuto così a lungo nell’ufficio del Presidente della Commissione esteri del Senato Usa, in questo caso il senatore John Kerry, che oltre a regalargli i gemelli con l’aquila presidenziale e parlare di sport acquatici, dall’alto della sua carica (cioè quella che controlla la borsa che finanzia le decisioni di politica internazionale dell’amministrazione Obama) ha dato anche lui il sigillo al messaggio di endorsement per Fini: questo è il leader che serve all’Italia.
D’altronde, a rendere tutto chiaro già nel mese di gennaio ci aveva pensato la bibbia liberale The Nation con un articolo che radiografava la situazione italiana evocando sviluppi poi concretizzatisi e incoronando Gianfranco Fini come salvatore della patria: se Futuro e Libertà cercava un programma, The Nation lo aveva scritto con largo anticipo. L’anno prosegue e cominciano le mosse tattiche di Gianfranco Fini, pronto alla resa dei conti dopo l’endorsement degli ambienti Usa che contano. Il 22 aprile lo strappo che preconizza la rottura: nel corso di una convention del Pdl, il presidente della Camera si leva più di un sassolino dalla scarpa, ricordando il pasticcio delle liste nel Lazio, il processo breve e altre decisioni del governo che ha dovuto ingoiare controvoglia. Silvio Berlusconi ascolta impaziente e appena sale sul palco rende la pariglia punto per punto, concludendo così il suo intervento: «Un presidente della Camera non deve fare dichiarazioni politiche. Gianfranco, se vuoi farle devi lasciare la carica, ti accoglieremmo a braccia aperte nel partito» . Un colpo quasi da ko, a cui Gianfranco Fini risponde invece alzandosi e andando sotto il palco con il dito puntato verso il Cavaliere: «Altrimenti che fai? Mi cacci?».
Il dado è tratto, i mesi a venire – complice la pausa estiva – serviranno a spargere veleni (la campagna mediatica sulla famosa casa di Montecarlo) e istituzionalizzare la rottura con la nascita di Futuro e Libertà, passando dal voto di fiducia del 29 settembre e arrivando fino al mese cruciale. Sarà infatti novembre il mese della grande sfida, il vero fuoco di fila preparatorio. Per una volta, WikiLeaks si rivela utile a quegli Usa che vorrebbero Julian Assange a Guantanamo: in Italia abbiamo letto con interesse come per le delegazioni Usa nel nostro paese, infatti, Silvio Berlusconi fosse stanco perché di notte faceva il bunga-bunga invece di dormire (strano tempismo preparatorio e mediatico tra pubblicazione e scoppio dell’inchiesta). Peccato che siano altri i cables interessanti.
I documenti segreti del Dipartimento di Stato rivelano infatti che Washington respinge e diffida dell’amicizia tra Berlusconi e Putin, ritenendola “corrosiva” per gli interessi occidentali, perché determina la politica estera italiana e «mette in pericolo la sicurezza energetica europea». I cables affermano che gli Stati Uniti ritengono che Berlusconi, comportandosi da «mediatore tra l’Occidente e la Russia>» spesso difende a spada tratta gli interessi della Russia al di sopra di quelli della Nato, degli Stati Uniti e dell’Europa, «minando i valori umani e democratici promossi dall’Ocse». Tra maggio 2002 e febbraio 2010, almeno 102 documenti rilasciati dal Governo e dalle ambasciate estere degli Stati Uniti (12 dei quali classificati come segreti e il resto come confidenziali) hanno cercato di interpretare e neutralizzare ciò che l’ambasciatore a Roma Ronald P. Spogli ha definito in un cablogramma del 26 gennaio 2009 «una torbida relazione».
L’inquietudine degli Stati Uniti si manifesta in due diversi cablogrammi, inviati a Roma e Mosca dal segretario di Stato Hillary Clinton. Nel primo, del 12 giugno 2009 (cablogramma 211 902), Washington richiedeva «tutte le informazioni circa i rapporti personali» tra Putin e Berlusconi, e domandava «quali investimenti personali, se esistenti, hanno realizzato (Putin e Berlusconi) che possano determinare la loro politica estera o economica». Pochi mesi prima, il 26 gennaio 2009, l’allora ambasciatore a Roma, Ronald P. Spogli, aveva dichiarato in un cablo classificato Segreto/noforn (“non consegnabile a paesi esteri”) che il primo ministro italiano e i suoi amici stavano «lucrando«, con accordi energetici bilaterali firmati dai giganti dell’energia Eni (30% di proprietà dello Stato italiano) e Gazprom.
Il dispaccio, che fu inviato con priorità “immediata” alla Segreteria di Stato, alla Casa Bianca e ai rappresentanti degli Stati Uniti nella Nato e nell’Unione europea, diceva: «I contatti dell’ambasciata, sia dell’opposizione di centro-sinistra che del partito di Berlusconi, il Popolo delle Libertà, ci dicono che esiste una torbida relazione tra i due primi ministri. Sostengono che Berlusconi ei suoi amici (“compari”) traggono profitti personali e disinvolti, con molti degli accordi energetici firmati tra Italia e Russia». Un altro cablogramma dell’ambasciata di Roma precedente a una visita negli Stati Uniti del ministro Frattini affermava: «Il governo italiano è ambivalente sull’appoggio al gasdotto europeo Nabucco, mentre l’Eni è disposto ad aiutare Gazprom a costruire gasdotti nel Mar Nero e nel Mar Baltico, cosa che aumenterebbe solo la dipendenza dell’Unione europea verso la Russia. Spesso l’Eni sembra dettare la politica energetica del governo, e usa il suo potere per ostacolare i piani di liberalizzazione del mercato europeo dell’energia». Un cablo del Dipartimento di Stato del 2 maggio 2008, inviato dal Sottosegretario Reuben Jeffery III a 20 delegazioni e uffici (154 742), racconta di un incontro teso tra questi e l’amministratore delegato di Eni Paolo Scaroni a Washington. Quando Jeffery chiese «perché l’Italia sostiene il progetto South Stream», Scaroni rispose bruscamente: «L’Europa ha bisogno del gas russo. È meglio avere il gas direttamente dalla Russia ed evitare future controversie tra Russia e Ucraina».
I cables proseguono, così come la rabbia Usa per la lesa maestà? La stampa si getta a capofitto nelle pieghe italiote del caso WikiLeaks, tenta di scavare, spara titoloni con nomi di intermediari e spie a Mosca salvo poi dover rimettere i computer nelle custodie: dei presunti intrallazzi Berlusconi-Putin non c’è prova né traccia, si tratta soltanto di scelte sovrane di politica energetica. Ciò che Washington, veramente, non può tollerare (chissà come avranno preso Oltreoceano l’accordo siglato nel fine settimana tra Eni e il colosso cinese degli idrocarburi Petrochina, in base al quale l’azienda italiana avrà accesso al gas non convenzionale della Repubblica Popolare, la tecnologia per estrarre il quale l’Eni ha appresa proprio dagli americani, in cambio della possibilità di maggior penetrazione di Pechino in Africa?). È il 29 novembre del 2010 quando WikiLeaks pubblica i primi 220 cables segreti, ma qualche giorno prima, il 21 novembre per precisione, un’altra tegola piove sul governo e sulla sua credibilità interna ed estera, essendo il nodo del contendere Finmeccanica, azienda molto attiva negli Stati Uniti e accusata dalla trasmissione Report di costituzione di fondi neri.
Ma perché quell’attacco a freddo? Eppure Finmeccanica, al di là del “no” alla costruzione dell’elicottero di Obama, ha vinto altre commesse negli Usa, ha acquisito nel 2008 la Drs, è uno dei principali fornitore del Pentagono e il suo numero uno, Pierfrancesco Guarguaglini, certo non ha il profilo del pericoloso bolscevico. La risposta è giunta due giorni fa, così riportata dal sito di Repubblica: «La Libia di Muammar Gheddafi fa il suo ingresso – malgrado i forti dubbi della Casa Bianca – nel capitale di Finmeccanica. La Lybian Investment Authority, fondo di investimento pubblico del regime del Colonnello, ha acquistato una partecipazione del 2,01% nel capitale del gruppo della difesa tricolore. Una mossa che rischia di surriscaldare i rapporti tra Roma e Washington già messi a dura prova nei mesi scorsi dall’asse Berlusconi-Putin con i suoi interessi nel settore del gas». «Mannaggia a quei testoni di Finmeccanica, il segnale di cambiare strategia glielo avevamo inviato eppure hanno proseguito e chiuso la faccenda», si lasciano sfuggire a voce alta da Washington.
Sempre a novembre, poi, si consuma la rottura totale tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi, atto che porterà allo showdown del 14 dicembre con il voto di fiducia a Camera e Senato e la mancata spallata, dimostrazione che la paura di un’alternativa politica mancante (o più prosaicamente della cadrega che sparisce) e ritenuta peggio dello status quo è in grado di fare di più e meglio dei piani cervellotici e da Spectre del Dipartimento di Stato. Il governo Berlusconi-Scilipoti batte l’abbinata Fini-Obama 1 a 0, palla al centro. Poi, ecco la bomba: Ruby e le altre signorine, la richiesta di processo immediato per concussione e prostituzione minorile il giorno dopo il parere pilatesco della Consulta sul legittimo impedimento, le 389 pagine di intercettazioni irritualmente allegate alla richiesta di perquisizione (c’è infatti il sospetto che nei fatti si trattasse solo di un modo di far pubblicare dai giornali le intercettazioni e dar via alla gogna mediatico-morale, poiché una perquisizione o ha carattere di blitz o non serve, visto che eventuali documenti posso essere fatti sparire nell’attesa) e terminate, chissà come, sui giornali il giorno dopo il loro arrivo alla Camera, Nicole Minetti, l’attacco di Annozero e dei giornali americani e inglesi (la voce “Italy” è la più cliccata sul sito del Daily Telegraph da giorni) oltre alla promessa dei Pm di nuove intercettazioni e, udite udite, forse «fotografie interessanti» da presentare alla prima udienza.
Il tutto grazie a un dispiegamento di forze investigative e mezzi di intercettazione che non si era mai visto per un’inchiesta di prostituzione, di altissimo bordo certo, ma sempre prostituzione, attività vecchia come il mondo e non certo nuova in una città come Milano. La concussione, poi, appare senza concusso: detto questo, a cosa serviva intercettare decine di persone? Bastava chiederne conto al questore di Milano, al dirigente in servizio quella famosa notte di maggio che ricevette la chiamata (o chiamate), al capo di Gabinetto della Presidenza del Consiglio che telefonò in Questura, al ministro degli Interni se proprio si voleva esagerare.
Ah già, queste cose sono già state fatte tutte: e il presidente del Tribunale di Milano, Edmondo Bruti Liberati, aveva certificato che tutto era stato fatto a norma di legge e il caso era chiuso. Certo, viene il sospetto che sarebbe stato certamente così se il 14 dicembre le cose fossero andate diversamente…
The end (sometimes life can be stranger than fiction)