Dario Di Vico, vicedirettore del Corriere della Sera e giornalista molto attento ai problemi politici, economici e sociali, ha scritto ieri un fondo dal titolo: “Federalismo con più tasse?”. Di Vico è convinto sulla necessità di una riforma federale, capisce benissimo ed è convinto che si tratti di una svolta di “responsabilità”. Di Vico ragiona solo sui dubbi legati al momento politico ed economico. Non a caso nel suo fondo il vicedirettore del Corriere parla di “tritacarne politico”. Quindi non si tratta di fare teorie sul federalismo in quanto tale, della sua capacità di razionalizzare e responsabilizzare in materia fiscale.
 
Dice Di Vico: “La più grande realizzazione in campo federalista risale se vogliamo al 1970, quando furono realizzate le Regioni. Ora non sarà certamente dovuto solo a quella realizzazione prevista dalla Costituzione, ma da quegli anni si dà una spinta alla crescita della spesa pubblica. Ora mi domando, ripetendo che il federalismo è una chiamata di responsabilità per gli amministratori locali, che cosa accadrà di fronte a due terzi dei comuni italiani che sono indebitati e devono ridurre gli investimenti per migliorare e sostenere le condizioni di vita delle loro comunità?
Qui c’è il fatto che di fronte ai trasferimenti dallo Stato alle Regioni, con due punti in meno di Irpef prelevati dal centro, che dovrebbero diventare di competenza regionale, si dovrebbe essere a posto.
Ma di fronte all’attuale situazione economica sarà veramente così? Il dubbio sorge di fronte alla possibilità di uno slittamento alla riforma fiscale che poi dovrebbe mettere a posto le cose. È questa non contestualità tra trasferimenti e riforma fiscale che semina dubbi”.
 
D’accordo sul momento economico difficile, Di Vico, ma non crede che il nuovo federalismo, compresi i problemi dei costi e del funzionamento, sia in fondo il tentativo di sanare il processo incompiuto di attuazione del federalismo della riforma del titolo V? Sto parlando della riforma Bassanini e poi quella del centrosinistra nel 2001.
 
Sì, su questo punto sono d’accordo. In quella riforma del 2001 si è pasticciato molto e ovviamente se ne risentono le conseguenze.
 
Ritornando al suo articolo sul Corriere che pone molti dubbi, è sicuro che non ci siano i costi standard e non si dimentichi che c’è un fondo perequativo che serve a passare dal vecchio al nuovo sistema? E quindi che a ogni comune saranno garantiti, a prescindere dai gettiti che riscuoterà con la nuova imposta, tutte le risorse necessarie per garantire lo standard di costo medio efficiente di un servizio?
 



Io ho dei dubbi sui costi standard. Si sta lavorando ancora e c’è ancora tempo per quanto riguarda altri settori. Si è molto avanti sulla sanità, ma non così su altri settori come l’assistenza e l’istruzione, per citare alcuni esempi. Anche questi sono problemi e interrogativi che ci si pone.
 
Due altre considerazioni Di Vico. La prima riguarda l’Ici, la tassa sulla casa che è stata abolita. Nel suo fondo sul Corriere pare che senza l’Ici si possa inceppare tutto nel bilancio dei comuni.
 
Ritengo che averla abolita a tranche prima dal centrosinistra e poi totalmente dal centrodestra sia stata più che altro una manovra elettorale. Ma in questo modo si sono tagliate le gambe alla finanza locale. In tutti i Paesi occidentali ci si finanzia con le tasse sulla casa. E credo che emergano dei ripensamenti nel dibattito politico.
 
Ultima considerazione. Non crede che non si sappia, o non si voglia, rassegnarsi inevitabilmente al fatto che alcuni comuni e Regioni perderanno e altri guadagneranno? La responsabilità non implica anche il rischio di una perdita?
 
Ritengo che in questa considerazione si debba sconfinare inevitabilmente nelle scelte politiche, negli schieramenti politici. Ho letto l’intervista di Francesco Rutelli che chiede tempo e uno spostamento della riforma. Io credo che sia una scelta fatta del “terzo polo”, lo schieramento che tende a diventare il partito del Sud, che si ritiene il più danneggiato da una riforma federalista.
 
 
Per cercare di trovare una soluzione a questi dubbi espressi dal vicedirettore del Corriere della Sera, ilsussidiario.net ha interpellato Luca Antonini, presidente della Commissione tecnica paritetica Copaff, la commissione cioè che si occupa dell’attuazione del federalismo fiscale.
Per quanto riguarda le preoccupazioni sull’aumento dei punti di Irpef, Antonini specifica con esattezza: “Si prevede che la compartecipazione Irpef venga trasformata in addizionale entro due anni. A quel punto i finanziamenti statali sono stati soppressi e lo Stato offre un gettito autonomo alle Regioni. Questo per vincolo legislativo non può comportare un aumento della pressione fiscale pena l’incostituzionalità rispetto alla delega legislativa”.
 



Ma Luca Antonini ritorna sulla portata innovativa della riforma federale e sul significato che essa avrà nel giro di tre anni: “Il federalismo fiscale non si occupa solo di fiscalità ma guarda anche alla spesa. Per la prima volta nella storia d’Italia questa volta si avrà per gli enti locali una spesa standardizzata, cioè una spesa basata sui ‘fabbisogni standard’ dei comuni. Sinora si è andati avanti in Italia con una ‘spesa storica’, cioè con una discrezionalità che ha portato anche ad alcuni dissesti e, di fatto, a un non controllo della spesa pubblica. Che cosa significa una spesa standardizzata? Significa che si stanno elaborando ‘parametri standard’ per le spese di settore che affrontano i Comuni: assistenza sociale, trasporti, polizia locale, istruzione, cultura. C’è un calendario per arrivare a questa spesa standardizzata. Entro quest’anno, cioè il 2011, si arriverà alla standardizzazione di un terzo. Entro il 2012, si standardizzerà un altro terzo.
 
Entro il 2013 il percorso sarà concluso. Mi sembra che questo sia un punto piuttosto dimenticato e trascurato dai media. Si tenga presente che l’ammontare dei fabbisogni standard di ciascuna delle funzioni fondamentali saranno a disposizione di tutti i cittadini, saranno affissi nei comuni, perché deve essere pubblicato obbligatoriamente sul sito del comune. A questo punto io mi chiedo quale sindaco avrà il coraggio di aumentare l’addizionale Irpef quando la sua spesa supera quella prevista dai fabbisogni standard calcolato per il suo comune. In questo caso, se lo facesse, avrebbe una rivolta della popolazione.
 
Oggi se aumenta un’imposta comunale nessuno dei cittadini è in grado di controllare in modo effettivo ed efficace se quelle risorse in più che chiede servino veramente o no. Insomma questa rivoluzione viene operata sul lato della e spesa, razionalizzandola in modo radicale. Io credo che il federalismo fiscale porterà a una minore pressione fiscale, cioè a un abbassamento delle tasse”.
 
Riguardo all’imposta di soggiorno, Antonini ci tiene a precisare “che chi si lamenta per questa imposta dovrebbe semmai prendersela con la riforma costituzionale del 2001 approvata dal centrosinistra. In base all’attuale articolo 119 cost., infatti, ogni regione potrebbe introdurre una propria imposta di soggiorno e potrebbe introdurla anche escludendo i residenti nella regione. Così non avrebbe problema a metterla molto alta, tanto i propri elettori ne sarebbero esenti. Così ha fatto tre o quattro anni fa la Sardegna e la Corte Costituzionale ha dovuto legittimare questa imposta. Questo perché se una fattispecie imponibile non è colpita da una forma di imposizione statale, può essere colpita dalle Regioni che su queste fattispecie hanno una potestà legislativa esclusiva in base appunto alla riforma del 2001.
 



Quindi il fatto che venga regolata dallo stato l’imposta di soggiorno, tenendola piuttosto bassa e non esentando i residenti, è in fondo un modo per evitare quelle che potrebbero essere indebite e poco equilibrate nuove forme impositive regionali.
 
In sintesi: la causa è nella Costituzione prima che nel decreto sul fisco municipale. Va poi detto che quasi dappertutto esiste l’imposta di soggiorno e che è un’imposta che pagano anche gli stranieri, e non solo gli italiani, compensando l’aggravio di spesa che comportano a un territorio per il quale non pagano tasse, ma di cui utilizzano servizi pubblici. Ad esempio, treni o autobus che hanno prezzi ridotti rispetto a quelli che sarebbero di mercato”.
 

 

(Gianluigi Da Rold) 

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