Dopo il parere positivo incassato in sede europea dalla “lettera d’intenti” del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, il quadro politico italiano continua a essere piuttosto agitato. I sindacati infatti hanno annunciato battaglia sul fronte dei cosiddetti “licenziamenti facili”, prospettati nel testo inviato a Bruxelles. Nella maggioranza, invece, i “malpancisti” hanno annunciato la presentazione di un appello al premier affinché faccia un passo indietro per realizzare gli impegni assunti in sede europea e «non finire su un binario morto».
«Tutto ciò non mi sorprende – dice a IlSussidiario.net il politologo Gianfranco Pasquino –. Berlusconi, infatti, è un ottimo venditore. E con il suo stile accattivante è riuscito a “piazzare” la manovra all’Unione europea. Se però si vanno a guardare nel dettaglio i contenuti di quella missiva si nota subito una notevole vaghezza. Sulle pensioni, ad esempio, quella lettera non dice nulla di quanto già sappiamo. Per quanto riguarda le altre promesse, invece, com’è già evidente, a livello politico sarà complicatissimo realizzarle».



Cosa mancava, secondo lei, in questo testo?

Per prima cosa una patrimoniale. In questo momento lo Stato ha bisogno di soldi ed è giusto che li chieda a chi li ha. Contribuiscano quindi i Montezemolo, i Della Valle, ma anche i Confalonieri e i Doris, se sono davvero disposti a scommettere su questo Paese. Il debito pubblico in questo modo si potrebbe abbattere del 30%, passando dal 120% al 90%.
In secondo luogo i tagli ai costi della politica. Su questo tema bisognerebbe però evitare ipocrisie. Non si risparmia granché, infatti, tagliando il numero dei parlamentari, ma, ad esempio, andando a toccare le province, con i loro edifici, il personale e tutto ciò che ne consegue.



Tornando a ciò che è stato promesso dal governo, come giudica la reazione dei sindacati sui licenziamenti “per motivi economici”?

È una battaglia di retroguardia. Questa proposta infatti non è affatto una tragedia. Non solo, se il sindacato avesse un minimo di capacità di negoziazione tratterebbe a livello della singola azienda chi andrebbe licenziato e chi invece bisognerebbe assumere.
Troppo spesso però le organizzazioni sindacali preferiscono rinchiudersi nelle loro torri d’avorio e limitarsi a organizzare qualche manifestazione di successo, soltanto dal punto di vista numerico. Sul piano dei risultati, infatti, non mi sembra che siano riusciti a migliorare le condizioni di chi lavora e di chi invece un lavoro non ce l’ha.



Veniamo al nodo pensioni. Questa volta il veto è stato della Lega Nord. A giudicare dalle dichiarazioni di questi giorni, non sembra però che un ipotetico governo di centrosinistra sia in grado di fare molto di più. 

Infatti non potrebbe farlo. E il motivo è piuttosto semplice: la sinistra è legata mani e piedi ai sindacati, che sono principalmente una corporazione di pensionati. Non a caso la maggioranza degli iscritti alla Cgil è già in pensione. E lo stesso vale per la Cisl: se Bonanni strepita, infatti, è perché deve difendere i pensionati del pubblico impiego.
Se questa però è la situazione nel centrosinistra, devo dire che nello schieramento opposto non capisco l’atteggiamento di Umberto Bossi. Al Nord non mi sembra questa la preoccupazione dominante.

Solo un governo di larghe intese, senza le estreme, potrebbe riuscirci?

Può darsi, ma forse per far pagare chi ha smesso di lavorare grazie alle “baby pensioni” basterebbe solo un po’ più di coraggio. Si potrebbe iniziare da lì, anche solo a livello simbolico, dato che molto spesso si parla di cifre irrisorie. In secondo luogo, bisognerebbe spiegare agli italiani che se davvero hanno intenzione di vivere fino a 85 anni, per avere una pensione decente devono iniziare a pagare di più. Concretamente significa aumentare gradualmente l’età lavorativa e invitare gli uomini a lavorare di più riducendo ai lavoratori e alle imprese i contributi da pagare. E con quelle risorse si potrebbe creare un fondo per l’impiego dei giovani.

Secondo molti commentatori, la campagna elettorale è già iniziata. Resta difficile però prevedere quale sarà lo sbocco politico di una fase politica così instabile.

Proviamo a partire dai dati politici più evidenti. Il Pd, sondaggi alla mano, vuole andare al voto. Al di là di alcune dichiarazioni è questo il vero obiettivo. La vittoria della coalizione battezzata a Vasto (Pd, Sel, Idv) sembra a portata di mano. Una volta ottenuta, all’occorrenza, sarà poi possibile scendere a patti con Casini, Fini e Rutelli.
Fossi nei panni dei dirigenti democratici starei però attento a non fare i conti senza l’oste. Berlusconi ama la campagna elettorale, ne conosce tutti i segreti e quando si cimenta in questo sport è come se ringiovanisse. Per questo partirebbe di certo ferito, ma non sconfitto.

E quale sarebbe invece il disegno del Cavaliere?

Fosse per lui punterebbe davvero fino al 2013. La spinta del centrosinistra in quel caso si esaurirebbe, soprattutto se il governo nel frattempo riuscisse a realizzare qualche buona riforma.
Il problema però è la Lega. Ha il terrore del referendum elettorale e se la Corte costituzionale lo riterrà valido staccherà la spina. Bossi infatti ha bisogno del “Porcellum” per sopravvivere politicamente. Deve poter nominare i propri parlamentari per difendersi da Maroni. Il ministro dell’Interno infatti è il successore naturale anche perché, a differenza sua, ha una caratura di governo.
Le variabili aumentano, ma non dimentichiamoci però del Presidente della Repubblica.

Cosa intende dire?

Ho l’impressione che il Capo dello stato non sia favorevole alle elezioni anticipate. Penso invece che se ci fosse la crisi cercherebbe una maggioranza alternativa. Non è detto che la troverà. Di sicuro però la soluzione non può essere un tecnico alla Mario Monti, persona di grande stile e capacità, ma politicamente “rozza”. In quel caso bisognerebbe invece volgere lo sguardo verso chi sta nel mezzo.

Casini?

Certo. Il Partito Democratico e la stragrande maggioranza del Popolo della Libertà potrebbero davvero bocciare questa ipotesi?

(Carlo Melato)