La telefonata in via Bellerio non è ancora arrivata. Si tratta solo di decidere chi, a villa Reale di Monza, si prenderà la briga di chiamare la casa-madre della Lega per chiedere di venire a portarsi via il peraltro scarno mobilio degli uffici dei ministeri pomposamente inaugurati solo pochi mesi fa, e di fatto mai entrati in funzione.



Calderoli, per dire il vero, ha promesso fuoco e fiamme se verranno toccati; e gli dev’essere salita la pressione pure dopo aver visto che nell’elenco dei nuovi ministri non c’è neppure un modesto sottosegretario che si occupi di federalismo, almeno a giudicare dagli strilli che ha emanato a stretto giro di posta. Gli passerà, se non altro quando qualcuno gli spiegherà che il ministero alla coesione territoriale in questa fase è molto più decisivo e strategico per le autonomie locali, visto che i nuovi fondi europei si giocheranno proprio su quella materia, e che il ministro scelto da Monti è uno dei maggiori esperti del settore.



Sta di fatto che per la Lega si apre una fase assai delicata. La scelta di proporsi di fatto come unica forza all’opposizione dovrebbe valerle un vantaggio sul lato destro dello schieramento, mentre su quello sinistro il sì a denti stretti di Di Pietro a Monti lascerà campo libero ai grillini. E tuttavia la questione è più complessa. Il Carroccio nel 2006 arrivava a stento al 4 per cento, con un voto espressione pressoché unica della sua base di duri e puri. Il 10 abbondante cui era salito tra il 2008 e il 2010 era dovuto in larga misura a quote di elettorato aggiuntivo trasmigrate dal Pdl: un consenso di quel Nord produttivo che si aspettava una vera riforma dello Stato, e non solo attraverso il federalismo (fisco, burocrazia e infrastrutture rimangono i nervi scoperti della questione settentrionale), e che guardava in tal senso alla Lega come forza di governo.



Questo elettorato è rimasto sostanzialmente deluso dall’irrilevanza leghista, anzi, in troppi casi, della subalternità a Berlusconi. E di un Carroccio all’opposizione non sa che farsene.
Il rischio dunque per Bossi è di raccogliere più voti del 2006, ma assai meno del 2008-2010; e di ottenere, stando all’opposizione, una maggior visibilità non spendibile peraltro sul piano politico. Le stesse prime mosse del Senatùr valgono a uso interno del suo movimento più che a fini esterni: rifiutare di andare alle consultazioni del Quirinale opponendo la concomitanza con una riunione di partito, e rispolverare il risibile Parlamento padano dei vecchi tempi, sono gesti che  valgono quanto la farsesca apertura dei ministeri a Monza.

In realtà, la fase che si apre consentirà alla Lega di risistemarsi all’interno; dove urgono radicali lavori di restauro. La prima mossa è stata l’azzeramento delle alleanze, con la dichiarazione di separazione dal Pdl: è la rottura formale dell’alleanza siglata nel 2000; e non è un caso che a proclamarla sia stato Roberto Maroni. Al quale l’uscita del movimento dal governo consentirà di completare la fase dei congressi, specie quelli lombardo e veneto, proponendosi come il vero leader emergente del Carroccio, a fronte di un Bossi più che mai spento ed evanescente.

Il Senatùr per ora ha congelato i due capigruppo, salvando quindi ancora una volta la posizione di Reguzzoni, capofila del “cerchio magico”. Ma non durerà a lungo. Certo, resterà sempre il padre nobile del movimento. Però il pallino passerà a Maroni. E sarà lui a scegliere se riportare la Lega in un nuovo centrodestra, o aspettare gli sviluppi di un quadro politico in pieno movimento per scegliere la posizione migliore.

Un dato di fatto però sembra emergere con chiarezza, dalla svolta aperta dalla caduta di Berlusconi: la centralità leghista nel quadro politico è finita. Forse per sempre.