Non tutti nel Pd amano Monti. O, quantomeno, non lo amano alla follia. Tra questi vi è il responsabile economico, Stefano Fassina. Che, nei giorni scorsi, aveva criticato duramente la lista degli impegni assunti dal governo in sede europea, richiesti da Ue e Bce. Aveva, inoltre, bollato le indicazioni per la crescita del commissario europeo Rehn come «deprimenti sul piano intellettuale prima che economico», e lo aveva accusato di aver proposto, come soluzione alla crisi, le sue stesse cause: «maggiore flessibilità del lavoro e maggiore moderazione salariale». L’aera liberal del partito (Enzo Bianco, Ludina Barzini, Andrea Marcucci, Pietro Ichino e Luigi De Sena) non ha digerito le sue esternazioni. E ha firmato un documento in cui gli chiede di rassegnare le dimissioni dall’incarico che ricopre in seno al Pd. Il cui segretario, Pierluigi Bersani, ha indossato il capello del paciere. Liquidando la questione con un «questa richiesta di dimissioni non l’ho proprio capita». Abbiamo chiesto a Peppino Caldarola di fare il punto sulla situazione interna al partito.
Cosa sta accadendo ne Pd? Si tratta semplicemente di diversi punti di vista sull’economia?
Si tratta di diversi visioni economiche che rimandano a differenze strategiche significative. Nel Pd, si stanno fronteggiando due posizioni: una è quella assimilabile all’ala liberal, che considera il governo Monti il governo del Pd e che, quindi, propone al partito un’adesione pressoché totale alle linee annunciate dal presidente del Consiglio; l’altra, è quella di chi, pur appoggiando Monti, e ritenendo importante il suo successo, lo considera un governo amico. Sul quale esercitare il massimo di pressione. Di quest’area, Fassina è uno dei massimi esponenti.
Quali sono le peculiarità di tale area?
Ha particolarmente a cuore il tema dell’equità sociale e il rapporto con i sindacati.
Quali sono i rapporti tra le due fazioni?
Finora hanno dialogato ma rischiano, nel prosieguo del governo Monti, di entrare pesantemente in rotta di collisione. La richiesta di dimissioni rappresenta l’anticipazione della drammatizzazione dello scontro.
Chi fa capo all’area di Fassina?
Una giovane leva di “rito” dalemiano. Tuttavia, Fassina esprime, seppur in maniera radicale, posizioni assunte da quel vasto mondo che, oltre a D’Alema, comprende anche Bersani; e che non ritiene accettabile la trasformazione del Pd in senso liberale, ma vuole conservarne, seppur rinnovati, i connotati socialdemocratici, continuando a definirsi, pertanto, “di sinistra”.
Che fine hanno fatto le vecchie correnti interne?
I protagonisti stanno cambiando, e stiamo assistendo ad un rimescolamento di forze. Enrico Letta, ad esempio, faceva parte della maggioranza che ha eletto Bersani ma oggi sembra decisamente più vicino alla posizione dei liberal. Siamo di fronte, quindi, alla ridefinizione degli schieramenti interni che avviene non più come rivalità tra due leader ma come contrasto tra diversi contenuti e visioni strategiche.
E i Popolari-Ex Margherita?
Un parta dei popolari sta guardando con grande attenzione al centro (Beppe Fioroni ed Enzo Bianco, per citarne alcuni), mentre un’altra, di cui fa parte, ad esempio, Rosy Bindi, escludono qualsivoglia spostamento a destra dell’asse del partito.
Che ruolo ha, in tutto ciò Bersani?
Bersani, in questo momento, rappresenta il punto di equilibrio del partito. Ha esplicitamente dichiarato di voler appoggiare lealmente il governo tecnico ma, al contempo, non vuol perdere il rapporto con il mondo sindacale e la sinistra.
E’ tra incudine e martello…
Diciamo che su di lui gravano due imperativi categorici, che lo collocano tra due fuochi: non può apparire come il sabotare del governo Monti; e non può incrinare il suo rapporto con le componenti di sinistra, non solo del partito, ma anche della società.
E, se in questo, dovesse fallire?
Questo, in gran parte, dipenderà dalle capacità di Mario Monti, che avrà il suo bel da fare nell’imporre sacrifici ma, al tempo stesso, mantenere l’impegno sull’equità. Se manterrà un tale impegno, i contrasti con la sinistra ci saranno ma non saranno deflagranti. Lo stesso varrà per Bersani. Se, invece, alla fase “lacrime e sangue” non dovesse succedere quella redistributiva, i conflitti con la sinistra deflagreranno e Bersani, per non uscirne sconfitto, dovrà dimostrare la forza effettiva della sua leadership.
(Paolo Nessi)